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Ecco perché l’Europa deve abbandonare l’Euro

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La questione greca sta portando ancora una volta alla ribalta il dibattito sulla sostenibilità della moneta unica. A tal proposito abbiamo il piacere di segnalarvi un approfondimento sull’Huffington Post a cura di Alessandro Casoli, Esperto di politica energetica e ricerca di mercato. Dato che ci ha concesso di riprendere il suo scritto, fatene buon uso. Buona lettura.

 
In Grecia, il governo di Tsipras aveva descritto una vittoria del "Sì" come una mozione di sfiducia verso Syriza e a favore dell’austerità, e una vittoria del "No" come una forte espressione da parte dei greci della loro volontà di riformare l’Europa dall’interno. Di sostenere un europeismo dal volto umano.


Nel resto dei paesi dell’Unione le due posizioni erano descritte diversamente: la scelta dei greci non riguardava le politiche economiche da applicare nel loro paese, ma se rimanere o meno all’interno dell’eurozona e, per estensione, dell’Unione europea.


Entrambe le interpretazioni sono fallaci. Da un lato, Syriza voleva convincere i greci che fosse possibile separare l’euro dall’austerità, quando è la camicia di forza imposta dall’unione monetaria a rendere necessario il taglio della spesa pubblica e la svalutazione dei salari. Dall’altro l’Unione europea vuole fingere che l’eurozona possa funzionare senza riforme strutturali in direzione di una maggiore unità politica – in primis tramite un governo centrale con il potere di effettuare trasferimenti fiscali dagli Stati ricchi verso quelli poveri.
Ma i greci non potevano scegliere l’euro senza austerità, come l’Unione europea non può sperare di mantenere l’euro senza creare quel governo centrale che nessuno vuole. L’euro quindi non può che fallire, in Grecia prima, e nel resto d’Europa poi. E se la sovrapposizione euro-Unione europea non sarà stata abbandonata, l’Unione fallirà con esso.
Presso quei movimenti politici europei che ancora mantengono che l’intera responsabilità del fallimento greco sia da addebitarsi all’austerità, e non alla costruzione fallace dell’euro stesso, la soluzione è chiara: antagonizzare la Germania, responsabile principale dell’austerità a causa del suo feticismo anti-deficit, fino a costringerla a capitolare e a lanciare un programma di stimolo pan-Europeo finanziato principalmente dai contribuenti tedeschi.


Ma la correlazione fra austerità e recessione non è così lampante, come dimostrato da alcuni recenti articoli sul caso dell’Islanda. Dal 2011 l’Islanda cresce a ritmi sostenuti, il Pil è tornato ai livelli pre-crisi, e la disoccupazione è scesa dal 9% del 2009 al 4% nel 2015. L’Islanda è famosa per aver lasciato fallire le proprie banche e per aver messo in prigione alcuni banchieri.
Meno noto è il fatto che dal 2009 al 2014 l’Islanda è stata il secondo paese al mondo dopo la Grecia a implementare maggiori misure di austerità:

Com’è possibile che non abbia avuto gli stessi effetti catastrofici della Grecia? O della Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia, paesi che hanno implementato meno austerità dell’Islanda, eppure possono solo sognare un tasso di disoccupazione al 4%?
Semplice: Grecia, Italia, Portogallo, Irlanda e Spagna condividono una moneta che non controllano. L’Islanda, invece, è uno Stato sovrano con la propria banca centrale e una moneta indipendente, la krona.


Al pari dei PIIGS, duranti gli anni del boom l’Islanda aveva accumulato un gap di competitività con i suoi principali concorrenti – gli altri paesi del Nord Europa – per via della crescita eccessiva dei propri salari. Per recuperare questo gap era necessario ridurre i salari, ma ciò non è affatto facile. I lavoratori (giustamente) resistono a tagli di stipendio. L’unica misura efficace è la disoccupazione di massa ("accetta uno stipendio più basso perché c’è la fila fuori di gente che è disposta a fare il tuo lavoro per meno"). Questa la soluzione adottata dai PIIGS per recuperare lo squilibrio, con tutte le conseguenze del caso – i disoccupati comprano meno beni, il che fa fallire le aziende, il che fa aumentare ancora di più i disoccupati. Se lo Stato non interrompe questo circolo vizioso con la spesa a deficit, l’economia entra in una spirale mortale. Come in Grecia.


Alternativamente, si può ridurre il potere d’acquisto reale, tramite svalutazione e inflazione. Questo non richiede disoccupazione di massa ed è effettivamente il meccanismo naturale di aggiustamento delle economie di mercato. Posto, ovviamente, che il paese in questione abbia sovranità monetaria e un cambio flessibile.
Come l’Islanda.

Dal 2007 al 2008, durante il collasso finanziario, la krona islandese si svalutò del 60%. L’inflazione salì brevemente oltre il 20%. L’indice dei salari reali passò da 120 a 100 nel giro di un anno. In altre parole, la correzione necessaria ebbe luogo rapidamente e in maniera assai meno dolorosa che in Grecia, in particolare per quanto riguarda la disoccupazione. Al 2014, la krona rimane svalutata, ma i salari reali degli islandesi sono ritornati al livello pre-crisi, mentre quelli dei greci sono più bassi del 25%.


Chi pensava che l’unico problema della Grecia potesse essere l’austerità si dimentica che il gap di competitività fra PIIGS ed Europa del Nord è reale e dev’essere risolto. Un programma di stimolo pan-Europeo non farebbe nulla per chiudere questo gap, e si limiterebbe a riaccendere gli squilibri commerciali fra Sud e Nord che hanno portato alla crisi. Per converso, le economie del Sud Europa non possono sopravvivere ai livelli di austerità necessari a riportare i loro salari in equilibrio con quelli del Nord. Un altro euro, semplicemente, non è possibile.
Per salvare l’Unione europea, gli Stati europei devono abbandonare l’esperimento fallimentare di unione monetaria, prima che le fratture generate dalle insanabili contraddizioni dell’euro portino al collasso di sessant’anni di cooperazione e alla morte del sogno europeo.
 

  

06/07/2015 | Categorie: Investimenti Firma: Redazione