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Brexit, i limiti dei TRATTATI europei

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Il referendum inglese sulla Brexit è stato solo l’ultima eclatante manifestazione della crisi di quel permissive consensus che gli studiosi del processo di integrazione europeo hanno indicato come uno dei requisiti della sua legittimazione democratica e che ha iniziato ad indebolirsi fin dall’inizio degli anni ’90. A differenza degli altri eventi politici in cui tale crisi si è manifestata (il referendum in Danimarca che bocciò la ratifica del Trattato di Maastricht, i referendum in Francia e in Olanda che respinsero il Trattato sulla Costituzione per l’Europa, il rafforzamento in tutti i paesi europei delle formazioni politiche ostili al processo di integrazione), il referendum inglese ha tuttavia rappresentato la prima incontrovertibile dimostrazione del fatto che il processo di integrazione non è affatto irreversibile come la retorica europeista ha sempre preteso.

 
Stante la peculiare natura dell’EU – una polity sovranazionale che, attraverso una lenta elaborazione pattizia, ha esteso nel tempo le proprie aree di competenza senza mai diventare un’entità federale – lo shock indotto dalla Brexit avrà tra gli altri effetti anche quello di testare la solidità dell’impostazione funzionalista che ha caratterizzato l’evoluzione delle istituzioni comunitarie e di valutare se proprio la natura pattizia e non costituzionale delle istituzioni dell’EU rappresenti un elemento di debolezza strutturale ovvero una risorsa di elasticità e capacità evolutiva.
 
Vediamo, dunque, di puntualizzare alcuni fatti relativi al referendum e ragionare sulle loro possibili implicazioni sull’assetto dell’unione.
 
Il contesto legale del referendum.
 
Come è noto, gli elettori dell’UK hanno trovato sulla scheda elettorale un quesito così formulato:
 
Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?
 
 ed hanno potuto scegliere tra le seguenti alternative:
 
– Remain a member of the European Union
 
– Leave the European Union
 
 Un tale quesito trovava legittimità nell’assetto costituzionale inglese?
 
La costituzione inglese, “partly written and wholly uncodified”, è perentoria nello stabilire il principio della Parliamentary sovereignity come la più importante tra le sue affermazioni. Questo principio, nella formulazione che ne da lo stesso Parlamento inglese, consiste nel fatto che il Parlamento è “the supreme legal authority in the UK, which can create or end any law” e nel fatto che “the courts cannot overrule its legislation and no Parliament can pass laws that future Parliaments cannot change”[1].
 
Poiché – a differenza di quanto accadde con il referendum indetto nel 2011 sulla riforma elettorale – la legge con la quale è stato indetto il referendum sulla Brexit, ossia lo European Union Referendum Act del 2015, non prevede che il risultato sia legalmente vincolante per il governo o su qualsiasi futuro governo, il principio della sovranità parlamentare resta inviolato dall’esito referendario, il quale ha dunque il significato di una mera scelta politica che lascia in ogni caso al parlamento e al governo, cioè ad una elaborazione di secondo livello, la concreta gestione della decisione. Nonostante la natura soltanto consultiva del referendum, il suo risultato non potrebbe in alcun caso essere ignorato o aggirato da qualsiasi governo per fondamentali questioni di accountability, che nella democrazia inglese rilevano moltissimo.
 
L’art.50 del Trattato sull’Unione Europea, nella sua versione consolidata modificata dal Trattato di Lisbona, stabilisce che “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”. Considerando le modalità di convocazione del referendum, si deduce chiaramente che l’effettiva decisione sul withdrawal esigerà un voto parlamentare su una motion o una resolution o uno statute che autorizzi il governo a notificare alle istituzioni comunitarie un’istanza di recesso sotto la previsione dell’art.50. Questo vuol dire che, dal punto di vista dell’UK, c’è tutto lo spazio per lasciare ad un’elaborazione politica attenta la preparazione dell’uscita e la gestione dei rapporti con l’EU durante la fase di recesso. La volontà di utilizzare pienamente questo spazio si è d’altronde manifestata subito, quando Theresa May ha comunicato che nessuna istanza sarà presentata prima della fine del 2016. Se pensiamo, poi, alle notevoli difficoltà tecniche che anche il solo avvio dei negoziati implicherà, è presumibile che i tempi del processo di Brexit saranno tutt’altro che brevi.
 
Ci sono ottime ragioni per ritenere che prima di un’eventuale presentazione di istanza di recesso sarebbe stato opportuno indire nuove elezioni: la stessa indizione del referendum avrebbe potuto infatti essere interpretata come l’ammissione da parte del parlamento in carica di una volontà di non assumere espressamente la decisione del Leave e come l’ammissione dell’incapacità di portare a sintesi politica le spinte per il Leave e quelle per il Remain. Inoltre, un’elezione generale giocata espressamente sul tema Leave/Remain avrebbe dato un mandato pieno ad un eventuale governo fautore del Leave o avrebbe potuto consentire una riconsiderazione della faccenda da parte dell’elettorato nel caso dell’elezione di un governo europeista. È dunque politicamente discutibile che sia l’attuale parlamento a gestire la procedura per la Brexit.
 
Da un punto di vista normativo la cosa però non è così lineare. Il Fixed-term Parliaments Act  approvato nel 2011 stabilisce che non si può sciogliere il parlamento prima dei termini fissati dalla legge. Indire elezioni anticipate sarebbe stato pertanto assai complicato: avrebbe richiesto una mozione approvata da almeno due terzi dei parlamentari oppure un voto di sfiducia al governo approvato 14 giorni dopo che un voto di fiducia fosse stato respinto. Oppure avrebbe richiesto una modifica allo stesso Fixed-term Parliaments Act. Insomma sciogliere il parlamento a seguito della vittoria del Leave avrebbe presupposto una ferma e ampia volontà politica in questo senso. Sappiamo in che direzione è andata invece la volontà politica: le dimissioni di Cameron e l’affidamento del governo a Theresa May, formalmente al fianco di Cameron nella campagna per il Remain ma culturalmente assai più vicina al Leave e dunque più adatta a portare a sintesi le varie anime della maggioranza conservatrice verso una soluzione coerente con il voto popolare.
 
Ci sono però altre questioni connesse all’effettiva costituzionalità del referendum inglese.
 
La legge di indizione del referendum non ha previsto nessuna maggioranza qualificata o soglia minima di affluenza né nessun altro meccanismo di espressione del consenso che tenesse conto dell’effettiva natura costituzionale del Regno Unito e questo ha determinato alcuni prevedibili problemi.
 
Il Regno Unito non è uno stato federale ma non ha assolutamente il profilo istituzionale di uno stato centrale o regionale. É usualmente qualificato come una “family of nations” (quattro nazioni, oltre a vari territori overseas e dipendenze della Corona) retta da una monarchia costituzionale. La complicata evoluzione storica di questo regno, unita ai molti anche recenti atti di devoluzione di funzioni e poteri dal parlamento inglese a quelli scozzese, gallese e dell’Irlanda del Nord, fa sì che le quattro nazioni britanniche si considerino costituzionalmente su un piano di formal co-equality. Una decisione di sistema come il recesso dall’EU, presa contro un voto chiaramente espresso da due di queste nazioni, costituisce un’oggettiva violazione del principio di co-equality, i cui effetti costituzionali non sono chiari ma i cui effetti politici si sono immediatamente manifestati attraverso un rafforzamento delle tendenze repubblicane in Nord Irlanda al ricongiungimento dell’Ulster con l’Irlanda repubblicana e la richiesta della Scozia di un nuovo referendum indipendentista e di modalità di associazione all’EU indipendenti dal Regno Unito[2].
 
Il diritto comunitario è incorporato direttamente nei devolution statutes in Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Ad esempio, la Section 29  dello Scotland Act del 1998 prevede che gli atti del Parlamento scozzese che sono incompatibili con il diritto dell’Unione “non sono legge”. Una disposizione analoga è data dalla Section 6 della Northern Ireland Act del 1998 e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è stata fondamentale nel negoziato per l’accordo di Belfast. Le devolution hanno inoltre cambiato profondamente l’assetto costituzionale del Regno Unito. Nell’attuale assetto costituzionale le quattro nazioni, agendo collettivamente, possono benissimo decidere di recedere dall’Unione Europea, ma in mancanza di unanimità un referendum puramente consultivo non avrebbe dovuto troppo pacificamente produrre decisioni che rischiano di pregiudicare la stessa integrità del Regno Unito. Il recesso dall’EU avrebbe dovuto piuttosto avere come sua premessa o accompagnarsi ad una seria modifica della legislazione sulla devolution, di direzione contraria al delicato processo costruito meticolosamente a partire dal 1997[3].
 
Gli effetti politici interni della Brexit graveranno anche sui negoziati con l’EU e condizioneranno molto gli effettivi contenuti del nuovo rapporto dell’UK con l’Unione, considerato che, secondo alcuni analisti, non è affatto certo che il Regno Unito riuscirebbe a sopravvivere nella sua stessa integrità ad un processo di rigida involuzione di tali rapporti.
 
Come avverrà la Brexit?
 
La retorica sull’irreversibilità del processo di integrazione ha avuto un peso politico così grande che fino al Trattato di Lisbona (2007) gli accordi fondamentali su cui si regge l’EU non prevedevano nessuna clausola di retrocessione, nessuna previsione normativa su come regolare l’eventuale volontà di uno stato membro di ritirarsi da uno dei patti sottoscritti. Attualmente invece una simile previsione esiste ed è sufficientemente chiara da guidare il processo di Brexit senza alcuna incertezza giuridica. Quando il governo del Regno Unito deciderà di formalizzare la propria istanza di recesso dall’EU dovrà farlo quindi sotto la previsione dell’art.50 del TUE.
 
Qualcuno, ritenendo la procedura del TUE troppo lunga, aveva ipotizzato una via più breve per l’UK attraverso l’applicazione dell’art.54 della Convenzione di Vienna sui Trattati Internazionali (VCLT)[4]. In realtà questa ipotesi è basata su alcuni errori: un’interpretazione non corretta del VCLT; un’interpretazione non corretta dell’art.50 del TUE; una sottovalutazione dei tempi necessari all’UK e non all’EU per realizzare la propria decisione.
 
L’art.54 del VCLT prevede la possibilità di recedere unilateralmente da un trattato internazionale senza incorrere in sanzioni nel caso in cui si realizzi un “fondamentale cambio delle circostanze”. In un caso del genere il VCLT prevede per l’effettiva risoluzione del rapporto un periodo minimo di tre mesi dalla comunicazione della volontà di recesso, periodo che può ulteriormente ridursi in circostanze eccezionali. In considerazione dell’impatto dannoso sull’economia mondiale, sulla volatilità nei movimenti di capitale e sui tassi di cambio che le incertezze determinate dalla Brexit avrebbero, tali circostanze eccezionali potrebbero addirittura essere invocate. Ma il punto centrale della faccenda resta l’applicabilità in sé dell’art.54 al caso inglese.
 
La Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha da tempo accettato che il diritto internazionale sia vincolante per l’Unione europea e dunque il VCLT è sicuramente un riferimento normativo importante nell’implementazione dei trattati europei. In materia di interpretazione dei trattati internazionali, tuttavia, la questione intorno a cui si è evoluta la giurisprudenza è quella del fondamentale equilibrio tra stability e change, ossia il problema dell’elaborazione di criteri attraverso cui l’enforcement del principio pacta sunt servanda possa essere efficacemente coniugato con la necessaria flessibilità imposta dal mutare delle condizioni storiche. L’interpretazione nettamente prevalente è che le clausole di rescissione o modifica dei trattati internazionali siano da considerarsi molto restrittive. Il diritto internazionale tende cioè attualmente a dare molta enfasi alla stability e ciò in ragione della consapevolezza che un crescente grado di integrazione tra gli stati – dovuto al processo di globalizzazione dell’economia – imponga un altrettanto crescente grado di horizontal accountability nei comportamenti dei governi nazionali. Un semplice cambio di opinione sancito da un voto popolare o un cambio di governo, rientrando tra le evenienze ordinarie di ogni democrazia, non è considerabile come un “fundamental change of circumstances”. Esso implementa piuttosto la semplice eventualità della volontà di una delle parti di recedere dall’accordo sulla base di una nuova e diversa valutazione politica degli obblighi pattizi. L’unico riferimento possibile al VCLT per una situazione come quella della Brexit sarebbe per l’invocazione degli articoli che disciplinano la rottura unilaterale e le relative sanzioni nel caso di comportamenti di una delle parti che potessero essere interpretati come una simile rottura. Nel senso in cui il riferimento al VCLT è stato suggerito, invece, esso non ha fondamento giuridico, perché il VCLT rinvia espressamente alle clausole di rescissione disciplinate dai trattati oggetto di rescissione come norma di prima istanza. Poiché il TUE ha un’espressa previsione applicabile al caso di specie, l’art.50, proprio ai sensi del VCLT esso resta il solo riferimento giuridico per la Brexit, come tutte le parti in causa e i commentatori più autorevoli d’altronde sostengono senza dubbio alcuno.
 
Il punto è che non è vero che l’art.50 del TUE imponga una procedura di due anni: due anni sono il termine ultimo entro cui la risoluzione dell’adesione avviene automaticamente dopo la presentazione dell’istanza in caso di mancato accordo tra le parti sulle clausole e la tempistica dell’uscita. Nulla vieta alle parti di concordare un percorso brevissimo e chiaro per l’uscita o, al contrario, di concordare una proroga del termine di due anni per il recesso (comma 3).
 
Una procedura di rescissione avviata sotto la previsione dell’art.54 del VCLT  implicherebbe invece tempi assai più lunghi e incerti, perché attiverebbe necessariamente tutta una serie di procedure di salvaguardia degli interessi dell’altra parte (EU).
 
Al netto di tutto ciò, è chiaro che il problema del Regno Unito in questo momento non è affatto trovare la via più rapida possibile per realizzare l’uscita dall’EU ma piuttosto trovare un percorso ben ponderato che dia tutto il tempo e tutta la possibilità di negoziare le condizioni migliori ed evitare il più possibile incertezze e contraccolpi.

I limiti e le possibili evoluzione dei trattati.
 
Il processo di integrazione europea si è rivelato niente affatto irreversibile e un grave errore politico è stato voler sostenere tale processo solo con la retorica europeista senza prospettare nei trattati delle soluzioni efficienti nei più diversi scenari. Tra le molte cose che la vicenda Brexit dimostra ci sono dunque proprio i limiti tecnici dei trattati sull’unione e della logica politica che li ha ispirati. Appaiono particolarmente critiche le seguenti mancanze:
 
Non esiste la possibilità tecnica di intraprendere e gestire il processo di withdrawal di un paese membro da parte dell’Unione. Questa mancanza è il risultato di una cultura europeista che ha sempre visto come un tabù la reversibilità del processo di integrazione ed ha accettato malvolentieri e solo nel 2007 di mettere nero su bianco l’idea che un paese potesse decidere di uscire dall’EU. Il sistema delle relazioni internazionali e il diritto internazionale si basano tuttavia su un fondamentale principio di horizontal accountability (nessuno può fare come gli pare ledendo la stabilità altrui) e, dunque, il fatto che i trattati non contemplino previsioni normative che consentano all’EU di imporre tale accountability e prevenire problemi di moral hazard, ad esempio assumendo direttamente l’iniziativa di recesso ex art.50 per tutelarsi, aggrava soltanto i pericoli di tale recesso, è un grave limite. Se una tale previsione esistesse, l’EU potrebbe imporre all’UK dei tempi certi per l’avvio dei negoziati, che invece in questo momento possono essere intrapresi solo dall’iniziativa inglese, lasciando sulle spalle dell’Unione tutto il peso dell’instabilità derivante dall’incertezza.
 
Non esiste la possibilità di rinegoziare le forme dell’associazione senza passare per il recesso. Paradossalmente, proprio l’accordo che Cameron era riuscito a strappare nel febbraio 2016 avrebbe rappresentato il primo importante esperimento di condizioni più elastiche di permanenza nell’unione, un esperimento che avrebbe potuto indirizzare verso evoluzioni interessanti l’assetto istituzionale dell’EU. L’esito del referendum, nullificando tale accordo, rende invece evidenti tutte le conseguenze della rigidità e dell’atteggiamento punitivo con cui i trattati disciplinano l’eventualità di un recesso. Il rifiuto della possibilità tecnica di una rinegoziazione dell’adesione e di situazioni diverse di permanenza nell’EU va sempre ascritto alla logica politica che intende impedire ad ogni costo la reversibilità del processo di integrazione. Ma davanti al fatto di un’espressa volontà di uno stato membro in tale senso, questa mancanza ha come effetto solo quello di spingere verso forme dure di recesso e verso un raffreddamento dei rapporti tra le parti che non giova a nessuno.
Non esiste la possibilità tecnica di sospendere temporaneamente l’associazione. Durante la crisi greca Schäuble aveva suggerito l’opportunità di sperimentare una soluzione del genere attirandosi l’ira di tutto l’europeismo ideologico. C’erano robusti argomenti economici a sostegno di una tale possibilità ma furono ignorati per esorcizzare l’incubo di una prima interruzione del processo di integrazione, incubo che poi si è materializzato ugualmente con la Brexit.
 
La rigidità degli attuali trattati corrisponde alla volontà di imprimere all’assetto istituzionale dell’Europa un processo di costituzionalizzazione. Tale processo, iniziato nel 1992 e culminato con il fallito tentativo di adottare nel 2004 la Costituzione per l’Europa, è temporalmente – se non causalmente – correlato con il processo di erosione del permissive consensus all’integrazione. Il rapporto tra i due fenomeni è complesso e meritevole di essere indagato. Resta il fatto che, come autorevoli teorici hanno evidenziato, il passaggio da una polity sovranazionale, nata con un’impostazione funzionalista, con la natura sostanziale di un’entità regolatoria[5] e retta da inediti ma efficienti[6] processi di democrazia pluralista, ad una polity di tipo federale retta da processi di democrazia deliberativa classica rischia di rivelarsi teoricamente e praticamente insostenibile[7]. La Brexit dovrebbe essere l’occasione per riflettere su questo tema valutando razionalmente le potenzialità e i limiti del processo di costituzionalizzazione rispetto a ciò che lo stato fluido e plurale dell’assetto istituzionale dell’EU, che ha accompagnato il processo di integrazione ed in parte sopravvive negli attuali trattati, ha invece garantito.
 
Che effetto avrà dunque  la Brexit sul futuro dell’EU?
 
Tre sono i possibili scenari:
 
Tutto resterà com’è attualmente, almeno fino alla prossima crisi. L’Unione progredirà nel suo declino e lo scenario di una rapida disintegrazione diverrà più probabile.
Il processo di costituzionalizzazione e trasformazione dell’EU in entità federale accelererà. Gli stati membri cederanno ulteriori funzioni all’autorità centrale e l’EU acquisirà poteri fiscali veri, con l’intento esplicito di rendere più reale e sostenibile l’integrazione economica e monetaria.
Il processo di costituzionalizzazione e trasformazione dell’EU in entità federale si fermerà ed i trattati saranno rivisti per dare maggiore elasticità alle condizioni di adesione, recesso e permanenza, con l’intento di sperimentare soluzioni innovative al problema di una polity sovranazionale con gravi problemi di consenso e implementazione della democrazia.
E’ assai difficile stabilire anche solo quale dei tre scenari sia il più probabile, oltre che decidere quale sia il più auspicabile. Le classi dirigenti europee hanno il dovere, se non altro, di iniziare a dibattere seriamente della questione.

[1] https://www.parliament.uk/about/how/role/sovereignty/
 
[2] http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2016/09/23/brexit-snp-scotland-indepen…
 
[3] http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2016/06/27/scotland-or-northern-irelan…
 
[4] http://blogs.lse.ac.uk/politicsandpolicy/the-seven-days-of-brexit/
 
[5] Majone, Giandomenico. 1998. Europe’s ‘Democratic Deficit’: The Question of Standards. European Law Journal 4: 5-28.
 
[6] Zweifel, Thomas D. 2002. Who is Without Sin Cast the First Stone: The EU’s Democratic Deficit in Comparison. Journal of European Public Policy 9: 812-40.
 
[7] Dahl, Robert A. 1999. Can International Organizations be Democratic? A Sceptics View. In Democracy’s Edges, ed. Shapiro, I. & Hacker-Cordon, C., 19-37. Cambridge University Press.
 

  

20/10/2016 | Categorie: Investimenti Firma: Redazione