
Storie d’Impresa, Valori d’Italia: Cultura Industriale tra Passato e Futuro
In Italia l’impresa non è solo produzione, ma cultura, comunità, racconto: cerchiamo la terza via al capitalismo
A dirlo con chiarezza è Giuseppe Lupo, docente all’Università Cattolica e curatore della collana Grandi romanzi dell’industria italiana edita da Il Sole 24 Ore. Intervistato da Finance TV, Lupo ci accompagna in un viaggio tra economia, letteratura e identità nazionale, ponendo una domanda centrale per il presente e il futuro dell’Italia: esiste una via italiana al capitalismo?
L’assenza di un romanzo dell’impresa italiana
Uno dei punti di partenza è letterario, ma anche profondamente economico e sociale: l’Italia non ha mai avuto un vero romanzo borghese, né un grande racconto dell’impresa. Manca cioè una narrazione ampia, collettiva, condivisa della figura dell’imprenditore. Quando compare nella letteratura italiana, l’imprenditore è spesso raffigurato in modo distorto: come un personaggio eccentrico, inaffidabile, addirittura grottesco.
Romanzi come Il padrone di Goffredo Parise (1965) o Il conte di Giorgio Soavi (1983) offrono rappresentazioni critiche e deformate: un imprenditore onnipotente che sceglie i partner sentimentali dei suoi dipendenti, oppure un mecenate scialacquatore, senza discernimento. L’impresa, nella narrazione italiana, raramente viene vista come luogo di visione o di progresso.
La collana dei romanzi industriali: memoria di un’identità produttiva
Eppure esistono eccezioni. La collana curata da Lupo raccoglie sei romanzi che, tra anni Cinquanta e Duemila, hanno saputo raccontare la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a nazione industriale. Da Ottieri a Volponi, da Balestrini a Silvia Avallone, passando per Pennacchi, queste opere descrivono non solo le fabbriche, ma anche le persone, le città, le tensioni sociali. È un patrimonio narrativo e culturale che mostra come l’industria italiana sia stata anche fucina di senso, spazio simbolico, non solo macchina di profitto.
Olivetti e l’umanesimo industriale: un modello possibile?
In questo panorama emerge una figura chiave: Adriano Olivetti. Non solo imprenditore, ma visionario capace di coniugare economia, architettura, arte, editoria, territorio. La sua impresa rappresentava un vero “umanesimo industriale”, fondato su collaborazione interdisciplinare e sul coraggio di osare. Chiedeva la consulenza di artisti, scrittori, filosofi. Un approccio che oggi sembra lontano, ma che offre spunti attualissimi.
Secondo Lupo, per avere “un nuovo Olivetti” servirebbe oggi molto coraggio imprenditoriale, e la disponibilità a fare scelte che non appaiono immediatamente redditizie, ma che rafforzano cultura e capitale sociale nel lungo periodo.
C’è (ancora) una via italiana al capitalismo?
Da Olivetti a Mattei, da Pirelli a molte medie imprese italiane degli anni ’60-’70, emerge un fil rouge: l’impresa non solo come produttore di valore economico, ma come attore sociale e culturale. Un modello profondamente diverso dal paradigma anglosassone teorizzato da Milton Friedman, secondo cui “l’unico compito dell’impresa è massimizzare i profitti”.
In Italia, invece, esiste una tradizione diversa: l’impresa per il bene comune, per il territorio, per le persone. Una visione che parte dalla nostra radice artigianale e manifatturiera, dal Medioevo dei comuni, dal “fare con le mani” che ancora oggi ci rende leader nel design, nella moda, nell’arredo, nella meccanica di precisione.
Welfare, comunità, cultura: i pilastri della nuova impresa
Lupo cita l’esempio virtuoso di un imprenditore veneto attivo a Milano che ha deciso di far seguire ai propri dipendenti corsi di storia dell’arte. Il motivo? Migliorare la qualità del lavoro attraverso l’arricchimento culturale, potenziando motivazione, senso di appartenenza e benessere.
Il futuro dell’impresa italiana potrebbe passare proprio da qui: valorizzare la dimensione umana e culturale del lavoro, contrastare la fuga dei cervelli, creare ecosistemi aziendali integrati con il territorio e orientati al bene comune.
Conclusione: ritrovare la cultura dell’impresa
Per rispondere alla crisi dell’identità imprenditoriale italiana – e per rilanciare il nostro modello nel contesto globale – occorre tornare a raccontare l’impresa come spazio di cultura, etica e comunità. Serve una nuova narrazione, ma anche un rinnovato protagonismo degli imprenditori: non solo come leader economici, ma come attori culturali, educativi, civili.
In un tempo di trasformazioni tecnologiche, crisi geopolitiche e tensioni sociali, una terza via al capitalismo – quella italiana – esiste. Basta avere il coraggio di praticarla.
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