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Razionalizzare il proprio modello di business

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L’importanza di migliorare l’architettura del business model per arrivare a definire il design del servizio, mettendo al centro di tutto le persone e imparando dalla lezione dei GAFA

Spesso la percezione che si ha del servizio offerto, supera ampiamente quella del cliente, il quale remunera l’attività che riceve e poi la giudica in maniera ben più severa di chi la eroga.

Bisogna partire da questo sforzo autocritico per cominciare a ripensare la struttura del modello di business con cui si va a operare sul mercato. Per questo può essere importante adottare la tecnica del design thinking, ripartendo dalle persone.

Vedremo alcuni casi pratici in cui i designer hanno letteralmente rivoluzionato il senso di determinate attività. Un metodo utilizzato con successo anche dai GAFA e che anche i consulenti potrebbero valutare per migliorare il proprio servizio.

Conoscete il fenomeno 80/8? Mentre l’80% delle imprese è convinta di offrire un servizio eccellente alla propria clientela, solo l’8% della clientela si dichiara d’accordo con questa affermazione.

Un gap abissale che ci dice quanto il mondo aziendale sia distante dalle aspettative della clientela; ci dice però anche qualcosa di più sorprendente: la tecnologia o la digital transformation che dir si voglia, non pare abbia portato quel giovamento che molte aziende si attendevano in termini di soddisfazione della clientela.

Questo dato non vi tocca?
Nonostante il vantaggio dovuto alla alta frequenza di contatto con la clientela che la vostra professione comporta, non credo.

O almeno potreste non sentirvi parte solo se lo dimostraste nei fatti.
Alzi dunque la mano chi fra i promotori finanziari o private banker (per non parlare di agenti assicurativi o mediatori creditizi) abbia attivato ad esempio una ricerca almeno annuale sui propri clienti per monitorare i livelli di soddisfazione. Solo poche mani alzate?

Eppure di strumenti digitali per fare ricerca ve ne sono a decine, la maggior parte gratuiti. Dunque, come sempre, non è un tema di strumenti e di loro disponibilità.

Travolti come siamo da notizie di novità, sviluppi, traguardi che la tecnologia traina, ci dimentichiamo che sempre più stretto è il novero dei giganti che da tali innovazioni non solo traggono profitto ma anche beneficiano in termini di engagement, che tradotto significa soddisfazione per il servizio da parte dei loro clienti e conseguente raccomandazione e passaparola.

Google, Amazon, Facebook ed Apple non sono solo straordinari leader di tecnologia ma anche degli esperti designer. Hanno fatto propria la teoria del design thinking (nata fra gli anni sessanta e ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti) applicandola al mondo del business.

Il Design Thinking è dunque un metodo creativo e collaborativo per affrontare sfide e problemi complessi.

Al centro di tale metodo vi sono le persone, siano esse clienti o collaboratori.

Un esempio?
Pochi anni fa un collaboratore di General Electric (divisione Salute) partecipò ad un corso di design thinking e stimolato dal metodo decise di applicarlo a un problema non risolto.
La società produceva apparecchiature diagnostiche; la TAC effettuata sui bambini generava molte complicazioni: paure, ansie nei piccoli e nei loro familiari, tensioni nel personale ospedaliero, necessità di sedazione per molti bambini, tempi lunghi per singolo esame, costi di gestione elevati.

Un team interfunzionale affrontò la sfida. Il risultato? La TAC si è trasformata in “L’Avventura dei Pirati”, un percorso avventuroso alla ricerca del tesoro dove apparecchiature, stanza, ambienti sono stati reinventati e l’esame avviene mentre il bambino sdraiato su uno speciale sacco a pelo ha sopra di sé un cielo stellato e immagini fiabesche.

Nell’ospedale di Pittsburgh, i bambini non vengono più sedati, sono contenti di fare gli esami, con un impatto positivo sulle famiglie e sul personale ospedaliero. Inoltre i costi di gestione della diagnostica si sono ridotti.

Questo approccio ha combinato le esigenze e il punto di vista delle persone con quanto è tecnologicamente fattibile ed economicamente sostenibile. Pensare come un designer può dunque cambiare il modo in cui le aziende sviluppano prodotti, servizi, processi e strategie.

E molti sono gli strumenti creativi che il design thinking mette a disposizione per affrontare le nostre sfide di business. Uno fra i più noti è il business model canvas.

Business Model Canvas

Ma che cos’è? Uno schema visuale per disegnare il proprio modello di business. Applicabile tanto ad aziende quanto a team e professionisti.

Ogni strumento visuale e creativo genera un interesse naturale che trova le proprie ragioni nella nostra innata predisposizione al gioco.

Focalizzandosi su 7 aree chiave (segmenti di clientela, value proposition, canali, relazioni con i clienti, attività chiave, risorse chiave e partners) e 2 relative a ricavi e costi ci offre un quadro sintetico e razionale del motivo per cui esistiamo (professionalmente parlando).

Svilupparlo in maniera strutturata aiuta un professionista (non solo un’azienda) a identificare con chiarezza il proprio posizionamento attuale o desiderato, offrendo spesso sorprese e punti di vista inesplorati.
E si è rivelato essere uno strumento estremamente pratico per rendere semplice e applicabile la strategia anche per start up, piccoli imprenditori e liberi professionisti.

Ma siamo sicuri che per l’ennesima volta non rischiamo di innamorarci di uno strumento? Ho conosciuto più di un’azienda e di un professionista che, una volta razionalizzato il proprio modello di business, hanno evitato di costruire un processo per far diventare cuore pulsante, giorno per giorno, quel modello.

Come afferma il suo inventore, Alex Osterwalder, ogni modello di business scade come lo yoghurt nel frigo; dunque, il vostro modello di business non è statico, ma va costantemente aggiornato e ripensato.

Perché dunque, ci è così difficile monitorare la soddisfazione dei nostri clienti? Solo perché non siamo a conoscenza degli strumenti (gratuiti) per realizzare una mini ricerca? E ugualmente se usiamo il business model canvas per definire o orientare il nostro modo di fare business perchè corriamo spesso il rischio di innamorarci dello specifico strumento?

No, non è il tempo il problema: certo, imparare ad usare Surveymonkey o Google Forms per chiedere feedback ai nostri clienti vuole tempo (e dunque denaro).
E per quanto riguarda il business model canvas, una volta sviluppato, rischia – se scollegato dal mio giorno per giorno – di fare la fine di tante giornate di formazione, belle, interessanti ma senza un dopo.

Il vero problema è il flusso.

La mia insegnante di tango un giorno mi disse che per iniziare una figura è sempre meglio partire dal terzo passo, non dal primo, dando ai primi due il compito di preparare in modo fluido l’entrata nella figura. Aveva terribilmente ragione. La fluidità, il flusso, nel tango è essenziale

E lo è anche nella nostra vita professionale.

Ed allora, dovremmo evitare per prima cosa di dare la colpa al tempo se decidiamo di non fare una cosa, un gran bell’alibi per rimandare.
Ma, ancora di più, dovremmo iniziare a spostare il nostro focus dagli oggetti, dagli strumenti, dai prodotti ed abbracciare una nuova logica, fatta di flusso, di esperienza, di servizio.

Cosa per niente facile, perché richiede un cambiamento culturale e – come diceva Peter Drucker (parafraso) – la cultura si mangia i processi a colazione.

Le differenze sono evidenti anche nelle parole. Il nostro settore di riferimento che chiamiamo Banche e Assicurazioni (e Reti) per gli anglosassoni è financial services; non si tratta di una semplice differenza semantica: nel primo caso il centro è l’offerta, autoreferenziale, nel secondo il cliente ed il servizio.

Di più: l’organizzazione di banche e società finanziarie vede una presenza massiccia al suo interno di direzioni prodotti, di marketing prodotto, di funzioni sviluppo prodotti, di responsabili fondi e così via, dimostrando un accanimento terapeutico verso un malato terminale, il prodotto appunto, e sganciando spesso le proposte di valore (value proposition, suona meglio) dall’esperienza e dal servizio.

Certo, sto un po’ esagerando ma credo che molte aziende siano ben consapevoli che il prodotto oggi rappresenta la condizione necessaria ma non sufficiente per stare sul mercato e che la vera sfida si giochi sulle componenti di servizio.

Ecco perché il tema è culturale.

In un mondo ideale, banche e reti – organizzativamente parlando – dovrebbero essere focalizzate in team interfunzionali dove promotori finanziari e “amministrativi” lavorano in collaborazione per co-creare e disegnare verso esperienze di servizio di successo, valutate come tali dai clienti, con la piena soddisfazione di front end e back office (termini da archeologia manageriale). Onde evitare che il passaggio a breve sia da risparmiatori a risparmiatori, con conseguente temuta disintermediazione.

In quest’ottica dovremmo ridimensionare anche le ansie che la MiFID II pare generare nel settore.
Solo in settori a bassa capacità di innovazione e di centralità sul cliente, le iniezioni normative rappresentano un invincibile leviatano.

I servizi che le reti offrono – intangibili – sono strettamente connessi alle esperienze ed è proprio attraverso quelle esperienze che i clienti percepiscono il valore.

Dunque, come sono quelle esperienze? E poi, come fare per creare delle esperienze che i vostri clienti vivano come significative?
Dobbiamo poi considerare che ogni esperienza è personale, muove emotività ed è sempre più complessa perché è la somma di numerosi punti di contatto, sia fisici che online.

Occorre saper valutare quale punto di contatto sia chiave per il cliente per poter governare al meglio quei “momenti della verità” che sanciranno fedeltà (condizionata) od abbandono. Serve soprattutto consistenza, coerenza fra queste differenti esperienze.

Alle domande di cui sopra non possiamo che rispondere con il metodo, cioè imparando a disegnare servizi le cui esperienze i clienti percepiscano come uniche e memorabili, di valore e capaci di promuovere passaparola.

Un mese fa sul sito di una nota casa automobilistica ho trovato un’offerta allettante sul cambio gomme. Ho lasciato le mie generalità per poter scaricare il coupon sconto e con mia sorpresa in poche ore sono stato contattato da una gentilissima signorina del call centre per indirizzarmi presso il concessionario più vicino.

Contattato dal concessionario di lì a poco ho lasciato i miei riferimenti in attesa di una offerta. Nulla per tre settimane. Richiamo e un altro signore prende in carico il problema, afferma che il suo collega non c’era (per tre settimane?), si scusa del ritardo chiarendo che probabilmente è stato dovuto da “loro” intendendo la casa automobilistica ed il loro processo di contatto.

Ho avuto tre esperienze, che valuterei nell’ordine in una scala da 1 a 10, 9, 3, 5. Nel più efficiente dei casi, sarò richiamato da un risponditore automatico per dare un voto alla signorina del call centre e alla sua capacità di soddisfare la mia richiesta, che per me è da 10, ma io da quel concessionario le gomme non le compro e neppure in futuro un’auto.

È il momento per le aziende di iniziare ad applicare quelle soft skills che colmino il gap rischioso che le divide da quelle hard dove la tecnologia e i tech objects l’hanno fatta finora da padrona.

Secondo una recente ricerca sull’engagement, l’85% delle risorse che lavorano in azienda si dichiarano non ingaggiate, non coinvolte, non si sentono parte.

Ci possiamo permettere un tale disimpegno?
Aprirsi a una disruptive collaboration, alla co-creazione richiede un cambiamento profondo delle strutture organizzative e prima di tutto della cultura aziendale.

Perciò, la vera domanda è: siete pronti ad andare sulla luna? e vedere la terra da un’altra prospettiva? Male che vada, sulla terra ci potete tornare quando volete; in realtà ci siete già.

Il Service Design è un metodo che vi facilita e abilita il viaggio sulla luna.

Un metodo che prende in considerazione da una parte il cliente e la sua prospettiva di esperienza di servizio e dall’altro l’azienda/ il professionista e dunque la parte organizzativa di tale esperienza.

Il primo passo è una chiara e netta identificazione del problema che vogliamo affrontare e risolvere.

Quante volte, dato il nostro frame, la nostra cornice di riferimento, il nostro ambito di competenza, definiamo un problema in maniera superficiale? Quante volte le nostre credenze personali ci inducono già direttamente ad una soluzione? Ma il collega di fianco a voi ne ha un’altra di soluzione, la sua, e solo un confronto metodico aiuterà tutti a sintonizzarsi sulle onde lunghe della condivisione.

Ancora una volta, pensate che la MiFID II sia un problema? Perché? La visione del problema MiFID II di un responsabile della compliance è la medesima di un promotore finanziario o del direttore finanziario della stessa rete? E quella del cliente finale?
Una chiara e condivisa identificazione e comprensione del problema e delle possibili sfide da affrontare è già un passo significativo verso la sua soluzione.

Contribuire attivamente allo sviluppo di una soluzione analizzandone le diverse alternative e partecipare affinché lo sviluppo delle idee si trasformi in soluzioni concrete sono i passaggi della fase di problem solving.

Il cambiamento dunque si origina nelle persone e nel loro coinvolgimento:
Si immergeranno nel servizio offerto e nel contesto in cui viene erogato, condivideranno le loro esperienze vissute a contatto con i clienti suggerendo perché queste esperienze dovrebbero essere migliorate in futuro?
Sperimenteranno una modalità coinvolgente di lavorare e apprenderanno tecniche e strumenti derivati dal service design e dal business modelling (system maps, personas, user journey, business model canvas)?
Svolgeranno una serie di attività pratiche nelle quali applicare ciascuna tecnica nell’ambito delle opportunità e dei problemi che emergeranno?
Lavoreranno in team per sintetizzare quanto fatto durante le attività pratiche fornendo input per disegnare una nuova e migliore esperienza cliente?

L’interazione fra front line e back office, cliente e organizzazione aziendale è un punto fondante.
Esperienze di valore nascono e si sviluppano quando le esigenze dei vostri clienti incontrano modelli di servizio sostenibili, praticabili. Altrimenti, restano semplici dichiarazioni di intenti, non perseguibili, chimere.

Il Service design rappresenta dunque un nuovo metodo capace di portare il cambiamento dentro e fuori le organizzazioni, creando condivisione e benessere per tutte le persone coinvolte.
Fuori, perché dobbiamo evolvere e studiare l’esperienza sulla base del comportamento del Cliente finale.
Dentro, perché per fornire e rendere reali nuove esperienze, dobbiamo cambiare l’organizzazione e i flussi aziendali.

Cosa promette questo approccio?
Un profondo orientamento al servizio, il coinvolgimento delle persone, ingaggio, partecipazione, co-creazione, sviluppo della creatività e dell’intelligenza emotiva, abitudine ad affrontare e risolvere problemi complessi.

Secondo una ricerca svolta dal World Economic Forum, nel 2020 queste sono le 10 competenze chiave che le persone dovranno saper maneggiare:

1. Complex Problem Solving
2. Critical Thinking
3. Creativity
4. People Management
5. Coordinating with others
6. Emotiional Intelligence
7. Judgment and Decision Making
8. Service Orientation
9. Negotiation
10. Cognitive Flexibility

Almeno 5 fra loro (1, 3, 6, 8, 10) sono le abilità che il service design mette in gioco. Nella classifica l’abilità più ricercata è la soluzione di problemi complessi.

Per concludere, se vogliamo che le persone non offrano al lavoro solo il loro tempo ma anche il meglio di loro stessi, le aziende devono modificare il loro mindset, attivando le capacità delle persone e sviluppando la cultura necessaria per fornire esperienze di valore ai loro clienti.
Affinchè i clienti possano godere di ogni euro investito dall’azienda.

06/05/2020 | Categorie: Ruolo ed Efficacia Firma: Stefano Bellini