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Pensioni, Alessandro Bugli: “Pesa l’assistenza, riforma così così”

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“Il sistema pensionistico non è in deficit, lo è quello dell’assistenza. La riforma in arrivo convince solo in parte”. Questo il sunto della lunga intervista concessa in esclusiva a ProfessioneFinanza dall’esperto in materia previdenziale Alessandro Bugli, avvocato dello studio legale associato Taurini & Hazan nonché attuale componente del Centro Studi Itinerari Previdenziali.

Quando si parla di pensioni, si sente spesso parlare di sistema in deficit: è davvero così?

“A dispetto di quanto si sente comunemente dire, il sistema pensionistico italiano non è in deficit (se non in misura residuale). L’importante sarebbe però chiamare le cose con il loro vero nome. Infatti, molto spesso, per abitudine, si è soliti chiamare “pensioni” ciò che in realtà attiene al mondo dell’assistenza. Non si tratta di una mera questione nominalistica. Gli impatti del non voler chiamare con il loro nome le singole prestazioni, rischia di fornire una lettura distorta della realtà. Si sente correttamente affermare che la gestione complessiva INPS è in deficit e che lo Stato deve normalmente compensare la perdita con il ricorso alla fiscalità generale. Vero. Peccato che si dimentichi di porre poi l’attenzione su quali siano le poste che generano il deficit di cui si discute, a fronte di un ente poliedrico chiamato a numerose e diverse funzioni che spaziano dalle pensioni, all’assistenza e al sostegno al reddito. Entrando più nel dettaglio dei dati, il Bilancio Previdenziale di Itinerari Previdenziali (www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/quinto-rapporto-bilancio-del-sistema-previdenziale-italiano.html) ha più volte evidenziato come non sia la gestione squisitamente pensionistica a mettere a repentaglio i conti (con gestione pensionistica si intende, per semplicità, il rapporto tra contributi versati e relative prestazioni) quanto, invece, l’importante mole – non sempre coordinata – delle diverse prestazioni assistenziali. In un sistema comunque in deficit, a traino marcatamente assistenzialista, ma generalista, l’effetto della importante spesa viene a non essere (giustamente) percepito correttamente dai destinatari. Le pur ingenti risorse appostate per l’assistenza, se destinate a una collettività troppo ampia senza un orientamento puntuale a risolvere certe criticità, rischia di “dare poco a tanti”, senza concretarsi in un vero aiuto”.

Anche quello delle pensioni basse è un falso mito?

“Non basta, anche sul fronte pensionistico, si è soliti dire che le pensioni italiane sono troppo basse e che più di 6 milioni sono al di sotto dei mille euro di importo. Vero anche questo, peccato che guardare al singolo assegno non offre la foto reale del Paese (dove ogni pensionato percepisce in media 1,4 pensioni; 22 milioni di trattamenti per 16 milioni di pensionati) e che, ancora una volta, quella modesta somma è molto spesso l’effetto di un’integrazione al minimo, dato che se dovessimo pagare la pensione “a calcolo” staremmo ben sotto la soglia già bassissima di cui si è detto. Si deve, poi, porre attenzione al fatto che il sistema pensionistico non è un mondo a sé stante, ma rientra nel più ampio contesto economico dell’andamento del Paese. Una realtà come l’Italia, con redditi da lavoro tra i più bassi di Europa, non può che avere anche le pensioni più basse d’Europa. Si fa un gran parlare di tasso di sostituzione (intesto come rapporto tra prima rata di pensione e ultimo reddito), ma si dimentica di ricordare che anche un tasso del 80% dell’ultimo reddito da lavoro (che sarebbe il più alto al mondo) farebbe comunque 800 euro di pensione”.

Cosa è successo in questi anni?

“In 50 anni di vita del Paese siamo passati dall’estrema generosità del sistema (poggiata sul boom economico e un trend demografico particolarmente favorevole) a un estremo rigidismo dello stesso in termini di uscita per pensione. Il pensiero va alla revisione Monti-Fornero, accelerativa della madre delle riforme previdenziali italiane, quella “Dini” del 1995. E’ chiaro che un inasprimento dei requisiti di uscita (soprattutto in termini di età) si rendeva necessario, stante anche l’aumento della speranza di vita, ma un eccessivo e improvviso incremento, tanto più in un momento economico particolarmente sfavorevole, non poteva che tradire le ragioni per cui era stato posto in essere. Mercato del lavoro e sistema pensionistico sono – come detto – legati per definizione. Inutile immaginare di elevare l’età di pensione se il mercato del lavoro stesso non è in condizione di mantenere in occupazione coloro che sono chiamati a prestare la propria attività fino a tarda età (si ricorda, poi, come la revisione arrivò nei momenti più bui dell’economia italiana). Non basta, l’entrata in vigore di “scaloni” troppo rigidi per l’ingresso alla pensione non poteva che danneggiare i c.d. esodati, con necessità di salvaguardie che avrebbero ridotto – anche di molto – l’effetto di risparmio dato dalla revisione di cui si discute. Così, l’estremo rigidismo fu seguito (nei tempi della timida ripresa) da un lungo percorso di creazione di meccanismi di “flessibilità” in uscita. Tra le tante riforme si ricorda l’APE (e, in dettaglio, quella social, dal sapore di ennesima salvaguardia)”.

In che situazione siamo oggi, con la riforma proposta dall’esecutivo gialloverde?

“Le soluzioni prospettate da questo Governo, non ancora del tutto definite sulla carta, sono in parte commendevoli e in parte poco prendibili in termini di finalità e coerenza con il sistema poc’anzi descritto. Da un lato, quota 100 (nella sua forma 62 anni di età più 38 di contributi, senza penalizzazioni) che potrebbe essere salutata con favore, salvo rammentare come un diverso rapporto tra quote avrebbe concesso di meglio contemperare l’esigenza di contenimento della spesa con quella, primaria, dei lavoratori di lungo corso di accedere al trattamento (ad esempio, con una formula 64 anni di età e 36 di contributi). Dall’altro, la c.d. “pensione di cittadinanza” e il “ricalcolo”. La prima apparentemente intesa a sollevare dallo stato di bisogno i singoli e le famiglie, ma destinato (salvo vederne la stesura in concreto) a premiare coloro che – a differenza dei fedeli contributori – hanno versato pochi contributi o non ne hanno versato nessuno. Con l’insano effetto di parificare a 780 euro di pensione, tutti; nessuno escluso. Senza contare che qualcuno i suoi 700 euro di pensione se li è pagati e sudati e altri, non sempre. Nel nostro ragionamento, questa previsione potrebbe essere l’ennesima riprova di una (NON) voluta confusione tra ciò che è assistenza e ciò che è sistema pensionistico, con il rischio di sentire ancora una volta l’Italia richiamata dall’estero per l’eccessiva spesa in pensioni, cosa che non è affatto vera, essendo semmai l’assistenza a scombinare i bilanci. Il “ricalcolo”, fondato sull’età di accesso alla pensione, che non sembra tenere conto che non è tanto il momento anagrafico di accesso al trattamento previdenziale a fare la differenza, quanto il numero e la misura dei contributi versati”.

Concludendo, qual è il suo giudizio sulla riforma del sistema?

“Ben vengano meccanismi di flessibilità nell’accesso al trattamento pensionistico, a patto che siano coerenti e rispettosi con la tenuta del sistema complessivo (non si dimentichi che in Italia, come in quasi tutto il mondo, sono i lavoratori attivi a pagare le pensioni e il resto arriva dal fisco, anche questo sostenuto in gran parte dai lavoratori attivi). Volente o nolente non si può immaginare di avere fasce di popolazione over 50 senza pensione e senza lavoro e lasciate in stato di difficoltà; dovendosi, in quel caso, spendere attraverso altri capitoli, quello che si andrebbe a corrispondere attraverso la concessione di un’entrata anticipata in pensione. Meno condivisibile, almeno allo stato (per come compresa), la scelta dell’ennesima politica assistenzialista (vestita da riforma pensionistica) che, pur nelle nobili finalità di fornire un aiuto, finirebbe solo per inasprire e esacerbare la relazione tra “buoni” e “disattenti” contribuenti, al pari di un ricalcolo delle pensioni non attento a valorizzare lo sforzo di chi abbia “dato di più” di altri; il tutto con volano, almeno teorico, a comportamenti – anche pro futuro – opportunistici (“non pago, tanto prima o poi qualcuno condonerà il tutto”). In conclusione, le politiche avanzate dal Governo in materia di previdenza e assistenza, tutte condivisibili nello spirito di equità e sostegno a chi abbia bisogno, devono necessariamente essere analizzate e giudicate separatamente tra loro: risultando più condivisibili nella parte in cui consentono una maggior flessibilità in uscita (da contemperarsi sempre con le limitate risorse) e meno là dove vestono di intervento a matrice pensionistico, qualcosa che esula dalla materia e si pone nel diverso capitolo dell’assistenza, da affrontare quindi secondo le regole e logiche di quella materia”.

29/10/2018 | Categorie: Economia e Dintorni , Finanza personale Firma: Luca Losito