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Come gli Usa vedono il mondo: perché l’economia globale non è un gioco a somma zero

Dalla rottura con gli alleati alla logica dei blocchi, come sta cambiando l’immagine internazionale degli USA



Negli ultimi anni la politica internazionale ha subito una trasformazione profonda, spesso sottovalutata nell’analisi quotidiana. A modificare radicalmente gli equilibri non sono stati soltanto i conflitti o le tensioni commerciali, ma un cambiamento nella percezione globale degli Stati Uniti, un tempo considerati il garante indiscusso della sicurezza dell’Occidente e l’architrave dell’economia mondiale.


Secondo Alessandro Lubello, editor di economia di Internazionale, ciò che stiamo vivendo è una fase inedita: l’azione politica di Donald Trump ha rotto un modello di alleanze che era rimasto sostanzialmente stabile dal secondo dopoguerra. Per decenni Washington aveva esercitato la propria “centralità” attraverso due pilastri: la sicurezza militare e la centralità finanziaria del dollaro. In cambio, Europa e Paesi partner accettavano la leadership americana, riconoscendone l’utilità strategica.


Oggi questo meccanismo non funziona più allo stesso modo. Trump ha trasformato quel privilegio in uno strumento di pressione politica, arrivando a considerare l’Europa non come un alleato naturale, ma come un costo, un freno alla competizione globale con la Cina. La logica non è più cooperativa: è una logica di contrapposizione, quasi di blocchi, in cui prevale la visione del “gioco a somma zero”.


Un approccio che potrebbe funzionare nel settore immobiliare, ma che nel commercio internazionale genera fratture profonde: crea sfiducia, mina la credibilità degli Stati Uniti e apre lo spazio a nuovi equilibri che ancora non hanno assunto una forma definitiva.


Il punto è cruciale: non esiste oggi un reale sostituto degli USA. Né la Cina né l’India, e nemmeno l’Europa, hanno una valuta, un sistema finanziario o un apparato di sicurezza in grado di rimpiazzare l’insieme delle funzioni esercitate dagli Stati Uniti. Tuttavia, come sottolineato anche da Paul Krugman, il danno di immagine prodotto in questi anni non è un dettaglio: è una ferita strutturale che cambierà gli equilibri futuri.


Per ora il sistema regge, ma la percezione internazionale si è incrinata. L’immagine degli Stati Uniti nel mondo non coincide più con quella di un garante affidabile: coincide sempre di più con quella incarnata da Donald Trump, con tutte le implicazioni che questo comporta.


È il segnale più evidente che un ciclo geopolitico si sta chiudendo, mentre un altro sta iniziando — ancora senza un vero protagonista definito.


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