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La consulenza e le euristiche al “quadrato”

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Il ruolo della componente inconscia nelle scelte d’investimento. Quando la psiche e i fattori emozionali influenzano i processi decisionali finanziari.

Il recentissimo premio Nobel per l’economia assegnato a Richard H. Thaler evidenzia l’importanza e l’incidenza della componente psicologica nei processi decisionali relativi alle scelte economiche:

Se leggete un manuale di economia, scoprirete che l’homo oeconomicus ha le facoltà intellettuali di Albert Einstein, una capacità di memoria paragonabile a quella del Big Blue, il supercomputer di IBM, e una forza di volontà degna di Gandhi. Davvero. Ma le persone che conosciamo non sono fatte così…” (Thaler-Sunstein).

Secondo il concetto di razionalità limitata introdotto da Herbert A. Simon, anche lui premio Nobel per l’economia, durante il processo decisionale la razionalità di un individuo è limitata da vari fattori: dalle informazioni che possiede, dai limiti cognitivi della sua mente, dalla quantità finita di tempo di cui dispone per prendere una decisione. Questo comporta quindi la ricerca di soluzioni soddisfacenti e non ottimali.

Nel 2002 il premio Nobel viene assegnato a Daniel Kahneman per avere integrato i risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente riguardo al giudizio umano nella presa di decisioni in condizioni d’incertezza. Successivamente l’ambito riconoscimento viene condiviso, nel 2005, da Robert John Aumann e Thomas Schelling per i loro studi sulla capacità decisionale in situazioni di conflitto o di cooperazione attraverso l’analisi della Teoria dei Giochi. In tema di Teoria dei Giochi, oltre al Nobel attribuito nel 1994 a John F. Nash, sono poi numerosi i Nobel assegnati anche ad altri studiosi.

Certo è che da Adam Smith, con il suo testo nel quale descriveva i principi psicologici del comportamento individuale, ad oggi molti sono i contributi che identificano ed attribuiscono grande importanza alla componente psicologica nel processo di presa di decisione.
Tutto questo per affermare che forse c’è voluto del tempo ma ci si è finalmente accorti che l’investitore, di fatto, è un essere umano e non un Econe:

Le persone vere riescono a malapena a fare una divisione lunga senza usare la calcolatrice, qualche volta dimenticano il compleanno del marito o della moglie… Non appartengono alla specie dell’homo oeconomicus, ma a quella dell’homo sapiens…” (Thaler-Sunstein).

Anche il termine finanza comportamentale di fatto non rende ragione della complessità insita in questo termine e nel “costrutto”, che la rappresenta (Nota dell’autore: uso volutamente questo termine di derivazione prettamente psicologica). Infatti la finanza non può avere comportamenti, così come le aziende non possono prendere decisioni. In realtà sono gli investitori ad avere comportamenti così come “non sono le aziende a prendere decisioni… ma le persone che ne sono coinvolte” (Simon). Il togliere la variabile umana dai contesti potrebbe rivelarsi un vano tentativo di ricondurre mercati, scelte e processi decisionali negli argini della prevedibilità, del calcolo e, di fatto, riportare il tutto nei limiti della razionalità. Quella razionalità che, seguendo le indicazioni degli autori citati, difficilmente può esistere.

Nel 1940 lo psicologo Carl Rogers definiva l’essere umano come “unico ed irripetibile”, evidenziando il concetto di consapevolezza quale funzione non unicamente cognitiva, ma anche basata sulle componenti emotive dell’esperienza oltre che influenzata da altre variabili. Le Doux (1986), dopo aver effettuato studi anatomici e fisiologici, teorizza il “cervello emotivo” giungendo alla conclusione che l’emozione non è un fenomeno unitario e la valutazione della rilevanza emozionale degli input sensoriali si verifica al di fuori della consapevolezza, probabilmente in neuroni localizzati nell’amigdala.

Damasio sottolinea quanto mente e corpo di fatto siano profondamente intrisi l’uno dell’altra, in un tutt’uno che proprio nelle emozioni trova la sua massima espressione. Nel testo “L’errore di Cartesio” egli sottolinea la centralità dell’emozione nei meccanismi decisionali della vita quotidiana dell’uomo.

Le decisioni umane “di qualità”, infatti, non devono essere basate solo sulla logica e sulla razionalità ma, al contrario, si nutrono e vivono di emozioni e affettività. Egli inverte quindi l’assioma per cui le decisioni di qualità sono dettate dai principi della logica e prive degli aspetti affettivi ed emotivi. Anche ignorando gli ulteriori ed innumerevoli contributi offerti dalla psicologia, a questo punto si delinea e si rivela la complessità del “sistema uomo” e si evidenziano le difficoltà di “comunicazione” tra la psicologia e l’economia.

Di fatto il rapporto tra economia e psicologia è difficile da armonizzare e anche l’approccio allo studio della presa di decisione è differente. Semplificando si può affermare che l’economia ha un atteggiamento “normativo” e sottolinea il principio della decisione razionale che tiene in considerazione tutte le variabili che possano entrare in gioco per arrivare ad una scelta che minimizza i costi e massimizza i risultati (teoria dell’utilità attesa).

La psicologia, invece, considera piuttosto i modelli mentali, le motivazioni ed i limiti nell’applicazione della razionalità che si nascondono dietro i “meccanismi” delle scelte e delle prese di decisioni. Kahnemann scrive a questo proposito: “L’agente della teoria economica è razionale ed egoista ed i suoi gusti non cambiano”.

Viceversa, “gli uomini studiati dalla psicologia hanno una visione del mondo limitata dalle informazioni disponibili in quel momento e quindi non possono essere né così logici e coerenti come l’uomo economico. A volte sono generosi e spesso sono disponibili a dare il loro contributo al gruppo al quale sono legati. Inoltre, non hanno quasi mai idea di che cosa ameranno l’anno prossimo o addirittura domani”.

La psicologia considera l’essere umano come complesso e così anche la sua personalità. Il termine personalità si riferisce all’insieme dei sistemi psicologici che contribuiscono all’unità e alla continuità della condotta e dell’esperienza individuali. Questo viene definito su molteplici “canali” che, di norma, vengono chiamati tratti e che sono determinati da fattori costituzionali innati, da fattori educativi ed ambientali e che conducono l’individuo a reagire agli stimoli ambientali con determinate modalità anziché con altre.

Di fatto la personalità non è fissa e immutabile, ma si evolve attraverso le situazioni che formano la “storia” di un individuo. L’essere umano oscilla tra un sé reale, quello che siamo o pensiamo di essere, ed un sé ideale, quello a cui tendiamo che in pratica rappresenta l’immagine della persona che ci piacerebbe essere. Festinger constata che ogni persona è animata dalla necessità di coerenza di fronte a sé stesso, tra il proprio modo di pensare e/o di agire. Quando questo non avviene, e il soggetto deve prendere una decisione, si crea una situazione di “dissonanza cognitiva”.

Ad un sistema già di per sé complesso si aggiunge anche il Locus of Control (Rotter), ossia una configurazione mentale che indica la modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti da suoi comportamenti o azioni, oppure da cause esterne indipendenti dalla sua volontà. Processo che si aggancia a quello di attribuzione causale, e cioè attribuire a sé stessi il merito delle scelte andate a buon fine e incolpare altri per quelle andate male.

Ecco in definitiva la “fotografia” del cliente che il consulente va a incontrare. E questa altro non è che una “polaroid” semplificata e in “bianco e nero” in quanto in questa breve analisi non è stata assolutamente considerata la componente “inconscia” che di fatto guida la nostra funzionalità. Leggendo Kahneman “Riteniamo di sapere cosa avviene nel nostro cervello…quasi tutti i pensieri e le impressioni si presentano alla nostra esperienza conscia senza che sappiamo da dove si sono presentati” (Pensieri Lenti e Veloci).

Entra in gioco a questo punto la componente forse più complessa dell’individuo: l’inconscio. Componente che di fatto non è “misurabile e parametrizzabile” e soprattutto difficilmente “semplificabile”. Quella che di fatto guida la nostra funzionalità, che è determinante per gli esiti della presa di decisione e che non viene sicuramente considerata dai modelli economici.

E forse tutto questo non è nemmeno sufficiente a spiegare l’estrema variabilità di comportamento e di azione di quello che a questo punto potremmo definire “l’oscuro oggetto” rappresentato dall’essere umano che definiamo col nome di cliente.

Le cose si complicano in maniera esponenziale se alla personalità del cliente aggiungiamo quella del… consulente. Un professionista alla caccia, come recitano i manuali, del “desiderio latente” del cliente e che agisce anche lui guidato dal proprio inconscio, dalla complessità emotiva di essere umano, con la sua esperienza, e soprattutto con i propri paradigmi e schemi mentali consolidati negli anni di lavoro sul campo. Esistono moltissime pubblicazioni sulla psicologia del cliente e forse nessuna sulla psicologia del consulente.

Le euristiche, gli effetti alone e le altre componenti cognitive servono all’uomo per semplificare le cose; sono “scorciatoie” che servono per arrivare prima alla presa di decisione e che talvolta, come evidenziato da Kahneman, portano ad errori. Ecco il rischio rappresentato dalle “euristiche al quadrato”, termine che esprime quando alla complessità del cliente si aggiunge, con incremento esponenziale, quella del consulente.

Alla luce di tutta questa complessità, quali strumenti deve quindi possedere un consulente? Quale formazione? Quali skill? Considerando inoltre che spesso la partita si gioca e si consuma nel fatidico “primo incontro” magari in pochi minuti?
In questi contesti le ricette precotte non funzionano, non è sicuramente facendo compilare “schede” o disponendo di una rosa di poche domande che si può risolvere efficacemente la situazione. Qui le competenze si allargano a macchia d’olio proprio come avviene per l’effetto “alone” *4. Qui entra in gioco la vera professionalità e la preparazione del Consulente. Colui o colei che affianca alle necessarie competenze tecniche elevate competenze relazionali e, perché no, anche psicologiche.

Nell’ambiente dei consulenti finanziari talvolta si paragona il consulente al medico. Va considerato che dal medico, solitamente, ci si va di spontanea volontà chiedendo espressamente aiuto, cosa che difficilmente avviene nel campo della consulenza.

Certo è che tutti noi abbiamo ben presente come vorremmo essere “trattati e considerati” dal professionista che ci visita. E soprattutto sappiamo come spesso sia proprio questo aspetto che ci fa decidere quando dobbiamo scegliere a chi affidare la nostra salute. La Relazione con la R maiuscola, di fatto, è lo strumento che viene utilizzato nella pratica clinica efficace.

Qui gli strumenti di indagine sono sofisticati, più che disporre di domande è utile conoscere come porre le domande, quali sono gli aspetti da cogliere nelle risposte, cosa valutare nel comportamento dell’interlocutore ecc. ecc. e queste sono competenze relazionali e non tecniche. Usando una citazione di Bernard Shaw “nel modo giusto si può dire tutto, nel modo sbagliato nulla: l’unica difficoltà consiste nel trovare il… modo”.

Sempre utilizzando il paragone medico-paziente forse non sono molte le persone che vorrebbero essere operate in un contesto progettato secondo le modalità tipiche della “catena di montaggio” o anche da un robot, anche se dal punto di vista teorico e tecnico questa potrebbe essere l’opzione migliore per ridurre le probabilità di errore. Forse nel momento in cui la tecnologia sembra farla da padrone le persone cercano maggiormente la componente relazionale ed umana, in particolare le generazioni che di fatto sono quelle che, statisticamente, dispongono di una maggiore disponibilità economica.

A tutti i consulenti probabilmente piacerebbe disporre di strumenti tecnologici e sofisticati di profilazione del cliente come, ad esempio, quelli utilizzati da Amazon. Queste tecniche sono possibili quando si può “spiare continuamente” il cliente che si affaccia in rete e dove ogni “click del mouse” assume un significato e può essere “registrato”.

Il consulente invece non è certamente una “identità invisibile” che può spiare in continuazione il cliente. Il consulente spesso si gioca la partita in un primo incontro ed in pochi minuti; ecco che personalità, emozioni, euristiche e bias*³ invadono la scena e così le conoscenze psicologiche, unite a quelle della finanza comportamentale, diventano determinanti per gli esiti favorevoli della consulenza se declinate nella realtà operativa e pratica anziché relegate in modelli teorici spesso eccessivamente semplificati.

Dopo poco tempo le persone normalmente si stufano di rispondere alle domande dei questionari. E poi come facciamo ad essere sicuri delle risposte che ci danno? Talvolta infatti non si ha nemmeno la certezza della risposta che potrebbe così risultare “compiacente” nei confronti del professionista, “distraente” o addirittura volutamente errata.

Per quanto riguarda la metodologia di indagine la cosa singolare è che la psicologia, pur riconoscendo l’esistenza di caratteristiche universali e comuni tra gli individui, preferisce occuparsi delle differenze. Metodologia che nella pratica sul campo si distanzia così nettamente dalle standardizzazioni e semplificazioni. Certo si può obiettare che la consulenza non è terapia, ma certo è che la personalità del cliente e del consulente, la loro emotività e le semplificazioni che mettono in atto, sommate alle euristiche ed agli effetti alone, proprio come evidenziato dalla finanza comportamentale, sono le componenti che di fatto determinano la presa di decisione.

Il rischio “dell’euristica al quadrato” diventa così reale, in un contesto dove la persona, il cliente, non si può banalmente definire “homo sapiens”, “homo oeconomicus” o quant’altro dettato dalla fantasia dei vari autori, ma banalmente e semplicemente “essere umano” e dove è la preparazione e la formazione del consulente che, in definitiva, fa la differenza.

Il ruolo dell’inconscio

Ad un certo punto nel processo decisionale entra in gioco la componente forse più complessa e articolata dell’individuo: l’inconscio. Componente che di fatto non è “misurabile e parametrizzabile” e soprattutto diffi-cilmente “semplificabile”. Quella che di fatto guida la nostra funzionalità, che è determinante per gli esiti del-la presa di decisione e che non viene sicuramente considerata dai modelli economici. E forse tutto questo non è nemmeno sufficiente a spiegare l’estrema variabilità di comportamento e di azione di quello che a questo punto potremmo definire “l’oscuro oggetto” rappresentato dall’essere umano che definiamo col no-me di cliente.

17/06/2020 | Categorie: Comunicazione e Relazione Firma: Dario Carloni