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Comunicare bene per superare l’ostacolo più grande nella lotta al cambiamento climatico: il nostro cervello

Le scienze comportamentali spiegano perché non reagiamo alla crisi climatica e come una comunicazione più efficace può risvegliare la responsabilità collettiva.



Perché il cambiamento climatico non ci scuote come un attentato o una crisi economica? Perché, pur vedendo alluvioni, incendi e siccità, non percepiamo l’urgenza di agire?

Sono queste le domande al centro della conversazione tra Jonathan Figoli e il filosofo e scienziato comportamentale Matteo Motterlini in una puntata di Finance TV – Le Voci dell’Economia. Un dialogo che ci porta dentro il cuore del problema: la crisi climatica è prima di tutto una crisi cognitiva.

Motterlini spiega che la nostra mente reagisce con forza a pericoli immediati — come il terrorismo o la violenza — ma resta indifferente davanti a minacce lente e globali.

“Non abbiamo un modulo dell’indignazione per la quantità di CO₂ nell’atmosfera”, afferma. “Ci manca quella reazione viscerale che ci spingerebbe ad agire subito.”

L’effetto spettatore planetario

Nel suo libro Scongeliamo i cervelli (non i ghiacciai), Motterlini cita un celebre esperimento degli anni ’60 sull’“effetto spettatore”: più persone assistono a un’emergenza, meno ciascuna si sente responsabile di intervenire. Applicato alla crisi climatica, il fenomeno è evidente: siamo 8 miliardi di “spettatori” che presumono che qualcun altro – un governo, una generazione futura, un grande gruppo industriale – agirà al posto nostro.


È così che nasce la paralisi collettiva: una delega inconscia della responsabilità.

Ma la scienza comportamentale può aiutarci a rompere questo schema, trasformando la consapevolezza in azione concreta.


La comunicazione come leva comportamentale

Una delle lezioni più importanti che emergono dall’intervista riguarda la comunicazione ambientale. Motterlini invita a cambiare registro: basta con i messaggi apocalittici, serve costruire narrazioni positive e partecipative.

“Quando le persone non sanno cosa fare, tendono a fare ciò che fanno gli altri. Allora raccontiamo che la maggioranza si sta muovendo, non che pochi riciclano.”

Gli studi confermano questa intuizione: dove aumentano i pannelli solari, cresce la probabilità che anche i vicini decidano di installarli. Le scelte sostenibili sono virali. Diventano norme sociali percepite, modelli imitabili, segni visibili di appartenenza.


Per questo – spiega l’autore – è cruciale mostrare esempi virtuosi, enfatizzare i progressi e rendere visibile la normalità del comportamento ecologico.


Bias cognitivi e “nuova normalità” climatica

Un’altra trappola mentale è la cosiddetta shifting baseline syndrome, descritta da un biologo marino: ogni generazione considera normale lo stato del mondo che eredita, anche se è peggiore di quello precedente. Così, ciò che oggi percepiamo come “tollerabile” – città inquinate, estati torride, biodiversità in calo – sarebbe stato inaccettabile solo cinquant’anni fa.

Questo adattamento progressivo ci anestetizza, impedendo di riconoscere la gravità reale dei cambiamenti in corso.

“Per chi non ha ancora subito gli effetti diretti della crisi climatica,” spiega Motterlini, “il problema sembra distante, quasi irreale. Ma chi ne è colpito in prima persona, agisce subito.”

Il negazionismo come difesa psicologica

C’è anche un altro aspetto inquietante: il negazionismo climatico. Non riguarda solo la disinformazione o gli interessi economici, ma un meccanismo di autodifesa psicologica.

“Ammettere che il riscaldamento globale è causato dall’uomo significa riconoscere che il problema siamo noi,” osserva Motterlini. “E di fronte a questa ferita narcisistica, molti preferiscono negare piuttosto che cambiare.”

La negazione diventa quindi un modo per preservare il proprio equilibrio mentale, anche a costo di ignorare l’evidenza.


Dalla misura del PIL alla misura del futuro

A distanza di oltre mezzo secolo dal celebre discorso di Robert Kennedy, in cui denunciava i limiti del PIL come misura del benessere, la riflessione torna più attuale che mai.

“Il PIL misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta,” diceva Kennedy nel 1968.

Oggi, come ricorda Motterlini, continuiamo a misurare la crescita ignorando i danni ambientali che la sostengono. Adam Smith parlava di ricchezza delle nazioni, non di PIL delle nazioni: nella sua visione, il capitale naturale era parte integrante della prosperità.


Eppure, l’economia globale continua a consumare risorse come se il pianeta fosse “in liquidazione”.

Secondo una ricerca pubblicata su Nature, l’aumento di due gradi delle temperature globali – scenario ormai realistico entro il 2050 – potrebbe ridurre il reddito mondiale del 19%, con perdite annue stimate in 38 trilioni di dollari. Il costo dell’inazione è dunque infinitamente superiore a quello della prevenzione.


Un cambiamento cognitivo prima che tecnologico

La conclusione è tanto semplice quanto rivoluzionaria: non basteranno nuove tecnologie, ma nuovi modi di pensare. Dobbiamo “scongelare i cervelli” prima dei ghiacciai, riscoprendo un senso di responsabilità condivisa, di fiducia e di futuro.


Come dice Motterlini:

“Non è solo il clima a essere fuori controllo, lo siamo noi. È il nostro modo di pensare che è diventato insostenibile.”

Solo comprendendo i limiti della nostra mente possiamo costruire un mondo sostenibile.



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Puoi acquistare il libro a questo link



Guarda l'intervista completa su FinanceTV o ascolta

il Podcast FinanceTV Talks - Le Voci dell'Economia

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