NEWS

Europa, Usa e Cina: le relazioni INSTABILI

Immagine di anteprima

Il sistema multipolare ha governato il mondo per tre secoli dopo la pace di Westfalia del 1648, che ha consolidato i nascenti moderni stati centralizzati dominanti. L’emergere del Regno Unito e poi degli Usa, dal XVI al XX secolo, hanno via via sconvolto l’equilibrio multipolare e lo hanno trasformato nelle due successive ere di dominio unipolare. Quel governo mondiale è terminato. Ora tutto sta di nuovo cambiando. Ma dalla unipolarità non si è affatto passati alla multipolarità, come molti improvvisamente sostengono.

Dove va il mondo?
La domanda si fa via via più angosciosa, ora che gli stati mesopotamici (Irak, Siria e Iran) non riescono a trovare pace e con loro tutti i plessi strategici africani e del Golfo Persico, dal Nord al Centro, sino a giungere alle foci del Nilo. Lì, il Sudan è lacerato dalla crisi di secessione e dalla guerra che gli Stati del Golfo combattono contro lo Yemen. Decisivo è lo scisma islamico tra sciiti e sunniti. Ma questo scisma ha ormai delle forze nazionali di riferimento che combattono una guerra per procura per impadronirsi delle risorse energetiche e geostrategiche: chi controlla Gibuti, per esempio, controlla un’immensa quota del commercio afroasiatico e, non a caso, alle originarie basi francesi, si aggiungono anno dopo anno nuovi attori. T

utto deriva dalla caduta di potenza degli Usa.
Due volte: la prima volta nel 2003, dopo l’invasione dell’Irak e la sciaguratissima distruzione del suo esercito e della sua polizia, che hanno formato così il nerbo dell’Isis; la seconda volta, con lo sciagurato discorso di Obama all’Università Americana del Cairo, dove ha chiamato alla rivolta laica contro Mubarak e il mondo si è così ritrovato un presidente egiziano più autoritario che mai, Morsi, con l’aggravante della legge islamica applicata dal più alto grado dello stato sino all’ultimo accampamento nomade.

Si è dovuti intervenire con la forza per estirpare il male e si è messo così a repentaglio anche il Sinai, con le inevitabili conseguenze sul confitto sempre incandescente tra Palestina e Israele e che pare non fnire mai, incancrenendosi sino al punto di dover abbandonare l’ipotesi di “due stati – due nazioni”. Il tutto mentre la globalizzazione ripiegava su se stessa e dava vita ai protezionismi economici selettivi.
Le ragioni? Due e tutte assai complesse.
La prima è la fine della spinta propulsiva della Cina, che ora si rivolge al mercato interno, sostituendo le importazioni e facendo così crollare il commercio mondiale. La Cina ora vede fuggire dalle sue terre gran parte degli investimenti esteri diretti ad alta tecnologia e intensità di capitale umano: i cinesi non sanno esprimere queste capacità e le industrie di pregio mondiali tornano a casa. Ma la Cina, ciò che oggi perde in potenza economica, conquista in potenza militare e geostrategica e si riarma grazie alla Russia e a buona parte degli stati asiatici, espandendosi aggressivamente alla conquista del Mar della Cina del Sud.
La seconda ragione che spiega il cambio di verso della globalizzazione è la caduta geostrategica di potenza degli Usa. Il gigante nord americano non controlla più gli alleati asiatici. Le defezioni flippina e malese sono evidenti e segnano un cambio di orientamento negli schieramenti internazionali: d’ora innanzi tutti sceglieranno, volta a volta, sul piano tattico e non strategico e la concorrenza tra Usa e Cina per il controllo dell’area sarà una corsa continua, infinita.

Ecco ciò che io chiamo le relazioni instabili, a frattali. Questo, Trump e soprattutto i suoi consiglieri militari, l’hanno capito benissimo. Il Giappone, infatti, sempre fedelissimo, sta uscendo dalla recessione economica, ma non riesce a farsi carico di tutto il lascito di potenza nord americano. Si prevede un’Asia in cui si ritorna alla diplomazia realistica, alla Kissinger. Il Ministro della Difesa flippino ha parlato recentemente molto chiaro per tutti, dicendo: “Tratteremo volta a volta tra Cina e Usa per capire chi ci offre a più convenienti prezzi armi e conquiste territoriali e sceglieremo volte a volta”. Ma c’è dell’altro: la Russia, anche in Asia, esprime un dominio di potenza tecnologica e militare impressionante. Del resto il suo destino o è euro-asiatico, oppure non lo è. È per questo che essa è così attiva in Medio Oriente. Deve riaffermare un ruolo nei mari caldi che l’aggressività Nato aveva messo in discussione nel Mediterraneo. Le basi in Crimea e in Siria devono essere non solo difese, ma se possibile aumentate. Ecco dunque la difesa ostinata di Assad in Siria e il nuovo tentativo di fare della Turchia un alleato strategico, sacrifcando sull’altare del realismo i curdi e tranquillizzando in tal modo i turchi, che diventano alleati bifronti: sono nella Nato e lavoravano con i russi.

La Russia vuol costruire una mezzaluna sciita dall’Iran, all’Irak sino alla Siria e al Libano difendendo nel mentre Israele dagli estremisti distruttivi. Netayaud deve riconoscerlo. Così facendo la Russia minaccia permanentemente l’Arabia Saudita (a capo dell’Opec), alleandosi tuttavia tatticamente con essa di volta in volta, come dimostra il recente accordo sulle produzioni petrolifere tra Opec e nazioni non Opec, di cui la Russia è la componente più importante. La tensione internazionale parte oggi più dal Mediterraneo che dall’Asia o dall’Africa. La tensione continuerà sino a quando non si giungerà a un accordo generale di ricostruzione e di ripartizione geostrategica dell’area mesopotamica. Ma questa volta la Russia la farà da padrona.

Gli Usa, d’altro canto, con Trump, oggi entrano nell’era di un realismo internazionale, sospeso tra neo-protezionismo economico selettivo e neo-isolazionismo diplomatico non radicale, che sceglie come alleato centrale la Russia per poter avere le mani libere in Sud America. La politica commerciale degli Usa è il cavallo di battaglia di Donald Trump. È questo, unitamente al problema dell’immigrazione e dell’aborto, il cuore essenziale del cambiamento che il nuovo gruppo dell’establishment Usa attorno a Lui raccolto vuole realizzare. Si sono dette molte cose anche interessanti sul tema del commercio estero, ma a me pare sempre troppo velate da un approccio ideologico che dobbiamo abbandonare. Rifettiamo in una prospettiva di lungo periodo e tutto ci apparirà più convincente. Gli Usa hanno ricostruito il mondo dopo la seconda guerra mondiale non in base ai propri immediati interessi, come alcuni superfcialmente affermano, ma nella prospettiva della guerra civile europea che dopo la vittoria contro il nazifascismo europeo e asiatico diveniva ancora più dura. Il problema era l’Urss e combatterla a ogni costo per difendere l’Occidente e i suoi valori.

Gli Usa scelsero il commercio mondiale come principale arma strategica: l’Europa doveva divenire l’antemurale allo stalinismo grazie alla sua crescita economica da cui sarebbe (così si credeva) scaturita un’impetuosa crescita democratica senza limiti, che avrebbe vinto la guerra civile contro l’Urss anche sul piano delle idee e quindi dell’opinione pubblica. Cosa voleva signifcare tutto ciò? In primo luogo doveva rendere più coesa l’alleanza militare ed economica da cui sarebbe discesa l’unità politica occidentale. Il commercio internazionale fondato su una chiara asimmetria era l’asse della nuova politica internazionale. Asimmetrico perché permetteva agli alleati occidentali e asiatici degli Usa di esportare senza limite alcuno nell’area nord america na, asimmetrico perché questa politica commerciale non chiedeva agli alleati alcuna controprestazione.

Del resto, a riprova di ciò, l’Unione europea si costruì passo passo come uno Zollverein (Unione doganale), in un‘area continentale prima con basse poi con nessuna tariffa daziaria, così da favorire la libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione, ma nel contempo erigendo continentalmente un muro protezionistico impressionante che creò e crea non pochi problemi alle produzioni agricole e manifatturiere non europee che dal mondo volevano dirigersi verso i mercati europei fortemente protetti. L’Europa poteva, in questo modo, forte dei guadagni realizzati con l’esportazione, creare un sistema di welfare su cui costruire un consenso e una coesione sociale essenziale per fronteggiare la minaccia dell’Urss e dei suoi partiti comunisti, forti in primo luogo in Italia e in Francia. Quest’ultima è una potenza imperiale con forti interessi africani di grande peso strategico e con continue pulsioni anti Usa. Mentre l’Italia svolgeva nel Mediterraneo un ruolo chiave diretto a condizionare la presenza comunista in Medio Oriente. Ruolo che svolse con intermittenza e con molte debolezze per via della politica flo palestinese che sino al governo Renzi ha sempre caratterizzato in molteplici modi la politica estera mediterranea dell’Italia. Oggi questa politica deve mutare in senso non più anti russo. La Germania fu, ed è ancora oggi, la potenza continentale che più trasse e trae vantaggio da cotanto commercio asimmetrico per la sua eccezionale potenza di fuoco nel settore delle esportazioni a livello mondiale. Quello che valeva e vale per l’Europa valeva e vale per gli alleati asiatici più importanti degli Usa, ossia il Giappone e la Tailandia che esportano i loro prodotti in Usa ma mantenevano e mantengono rigide misure protezionistiche rispetto alle loro frontiere.

I contadini del Mississippi non possono esportare i loro prodotti in Giappone e in Europa, mentre le auto giapponesi invadono invece il mercato nord americano assieme a quelle tedesche, sradicando in tal modo posti di lavoro e gettando nella disoccupazione i salariati e gli operai nord americani che – come sappiamo – costituiscono, con gli impiegati pubblici, il cuore delle cosiddette classi medie Usa. Tutto questo aveva le sue arterie fnanziarie: si pagava in dollari e questi dollari che invadevano i mercati fnanziari non Usa ritornavano nel Paese di origine reinvestiti dagli esportatori europei e asiatici nel sistema fnanziario più redditizio del mondo, con quello del Regno Unito, ossia Wall Street, operando sul debito e sul sistema borsistico.

Ma se da una parte questa giostra monetaria ha rifinanziato senza sosta il debito Usa, dall’altro lato ha deindustrializzato gli Usa con una forza e una rapidità impressionante che nessuno aveva previsto, creando quella disuguaglianza nei redditi e nei sistemi di status che è stata tanto studiata da un pugno di accademici, quanto vissuta da milioni di persone che con Trump si sono mese in marcia nella partecipazione politica ed elettorale in una misura e in una forma che non era mai successo prima. C’erano tutti i presupposti: mancava la scintilla che accendeva il fuoco nella prateria segando il ritorno del populismo nord americano così come si era già manifestato nel Populist Party che nacque dalle ceneri del Greenback-Labor Party di fine Ottocento e che nel 1911 conquistò l’elezione diretta dei Senatori sancendo la fne del Senato come “club dei milionari”. Una vena che giunge al suo culmine con il vicepresidente Usa Henry Wallace, il quale entrò in rotta di collisione con il presidente Truman. È una lunga storia che con Trump è ritornata a scuotere dalle fondamenta il sistema delle elite del potere nord americano, con conseguenze che sono per ora imprevedibili, ma che vanno nel senso di chiudere defnitivamente l’era della guerra civile europea e di aprirne un’altra, fondata su una sorta di un risarcimento nei confronti degli Usa dei pesi che essi hanno sopportato nel periodo della cosiddetta guerra fredda e che ora non possono più sostenere pena una crisi che potrebbe essere profondissima.

Da questa crisi non uscirà vittoriosa come dovrebbe l’Europa, prostrata invece dalla politica commerciale tedesca, ma la Cina. Tutto ciò costituisce un pericolo mortale per la stessa civiltà occidentale. È questo che il Regno Unito non comprende ed è questo il cuore pulsante ma destinato all’infarto della Brexit. Essa si spiega non guardando all’Europa, ma agli Usa e a quanto ho sin qui detto. Con la stessa logica prima illustrata, Trump vuole abolire il (mai frmato) patto commerciale transpacifco. Ed ecco la contraddizione: esso poteva sì costituire un’arma contro la Cina, ma si rivelò, già prima di Trump, inattuabile per il distacco dagli Usa di nazioni come le Filippine, la Malesia e la Tailandia. D’altro canto il Regno Unito si illude di poter dar vita a un nuovo impero con l’accordo con la Cina perché ne sottovaluta gravemente l’aggressività militare, a differenza di Trump. Un mondo che sul commercio estero e la sua storia si sta delineando in uno scenario interamente nuovo e che vuol lasciare dietro di sé un passato che era inevitabilmente destinato, Trump o non Trump, a scomparire.

A cura di Giulio Sapelli, professore ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Economia politica

19/06/2017 | Categorie: Economia e Dintorni , EconoPolitik Firma: Redazione