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Equity Premium Puzzle

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Storicamente il risk premium negli Stati Uniti si è collocato in un valore tra il 7% e l’8%. Eppure secondo le stime effettuate per il secondo e terzo trimestre del 1999, svolte rispettivamente da Blanchard e Wadhwani , sottraendo al rendimento totale il tasso privo di rischio, il risultante premio per il rischio si sarebbe aggirato su valori prossimi al 2% (secondo Wadhwani a settembre del 1999 tale premio era solo dell’1%). Commentando tali dati Blanchard tenne presente che vi erano delle buone ragioni perché il risk premium fosse inferiore agli anni precedenti, ma il 2% era davvero troppo basso e perciò parlò di una bolla gonfiata in parte da stime eccessive dei tassi di crescita ed in parte da aspettative puramente estrapolative sui prezzi.

Nel modello di Mehra e Prescott (1985) il premio per il rischio era determinato dalla covarianza tra la crescita dei consumi e il rendimento del mercato azionario, moltiplicato per il coefficiente di avversione al rischio relativa. Dal momento che la crescita annuale dei consumi ha una deviazione standard di circa l’un per cento, la covarianza sarà piccola, e questo si traduce in un valore ampio per la misura dell’avversione al rischio se si raffronta all’equity premium americano nel dopoguerra[103]. Campbell (1998) ci riporta un valore del 7.85% nel periodo 1946-96.
Ci sono stati diversi tentativi di spiegare l’essenza dell’equity premium. In particolare si può operare una distinzione in cinque categorie che non si escludono necessariamente a vicenda. Una prima categoria contiene quei modelli che mirano a rendere più plausibile un’alta avversione al rischio. Campbell e Cochrane (1999) propongono un modello con l’avversione al rischio che varia nel tempo sulla base della costanza delle abitudini. In caso di recessione gli individui divengono altamente avversi al rischio, mentre in periodi di espansione l’avversione al rischio cade.
Una delle caratteristiche attraenti di questo modello è la sua capacità di combinare un numero di altre caratteristiche dei dati per i quali il modello standard fallisce. Hansen Sargent e Tallarini (1997) fanno riferimento ad un’economia nella quale si assume che l’operatore medio non sia a conoscenza del modello che genera i prezzi delle azioni. Essi specificano una forma per la funzione di utilità che può essere interpretata in alternativa come preferenza per la resistenza a piccoli errori di specificazione.
La seconda categoria presuppone che l’oggettiva incertezza circa i rendimenti sui mercati azionari sia più grande di quanto non rivelino i semplici dati. Rietz (1988) mostra come l’introduzione, con una piccola probabilità, di un consistente shock negativo alla crescita dei consumi sia sufficiente a spiegare il premio. La probabilità può essere assunta sufficientemente piccola da ridurre la possibilità di osservare un tale shock, nell’arco di un intero secolo. Tuttavia se si tiene conto dell’esclusione di diversi mercati azionari importanti, come quello tedesco, giapponese, cinese e russo, dallo studio a lungo termine dei rendimenti azionari, per vie delle interruzioni che li caratterizzano, se ne deduce una sostanziale sottostima del rischio reale dei mercati azionari.
La terza categoria introduce varie alternative alla razionalità limitata. Cecchetti, Lam e Mark (1998) modificano il modello standard di asset pricing di Lucas, assumendo gli individui non percepiscono la continuità delle espansioni e delle contrazioni. Essi dimostrano che gli individui credono che entrambe siano meno continue di quanto non rivelino i dati, e se queste credenze variano nel tempo, è possibile riprodurre il livello e la volatilità dell’equity premium.

La quarta categoria introduce eterogeneità tra gli investitori. Constantinides e Duffie (1996) ipotizzano una struttura in cui esistono variazioni trasversali nei consumi. Essi ritengono che se la varianza trasversale del logaritmo della crescita dei consumi è correlato negativamente al livello di consumo aggregato, così che il rischio legato al consumo individuale aumenti in recessione, ciò aiuta a spiegare l’eccesso di rendimento sulle azioni, senza ricorrere ad alti livelli di avversione al rischio.
La quinta categoria introduce gli attriti. Heaton e Lucas (1996) hanno trovato che occorrono ampi costi per le transazioni azionarie o limitazioni al credito per spiegare l’equity premium. Altri hanno mostrato che costi fissi molto bassi o l’assestamento di consumi non durevoli riescono a spiegare una parte, ma non tutto l’equity premium.
Sebbene dunque, alcuni ritengono che il modello standard può essere utilizzato per razionalizzare la valutazione del mercato, alla luce della ricerca svolta sinora, ciò non sembra convincente. Sebbene nessun modello fornisca da solo una spiegazione pienamente soddisfacente per l’equity premium, molti offrono spunti interessanti sul perché il modello standard si discosti dai dati. Oltretutto il modello dovrebbe essere in grado di spiegare una precipitosa caduta dell’avversione al rischio nell’arco di pochi anni, e perché questo fenomeno sarebbe confinato agli Stati Uniti. Ciò ovviamente non avviene.

Il modello della permanenza delle abitudini di Campbell e Cochrane, può produrre periodi durante i quali il rapporto prezzo dividendi è alto, a condizione di un’alta crescita dei consumi nel recente passato. Ma questo non è ciò che è avvenuto in America, nell’ultima decade. Modelli come quelli di Rietz propongono un discorso in cui all’improvviso gli investitori smettono di credere al rischio di un crollo. Tuttavia in un mondo di razionale apprendimento cambiamenti nelle convinzioni sono in genere graduali. L’ unico mondo in cui ha senso un cambiamento repentino delle convinzioni, è un mondo irrazionale…

20/07/2009 | Categorie: Investimenti Firma: Marco Primavera