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Consulenza previdenziale, nulla poterono gli errori e la confusione normativa

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L’estate sta finendo e un anno se ne va. Come da abitudine cogliamo l’occasione per fare il punto di cosa è successo e quali sono le novità per il welfare integrativo.

La nostra giovane e piccola previdenza complementare conosce ancora uno sviluppo in termini di iscrizioni; ciò pur a fronte dei diversi interventi legislativi (quasi tutti di natura fiscale) che sembravano minacciarne la crescita.
Era la metà del 2014, quando, con il famoso decreto “80 euro”, il legislatore rompeva il silenzio protrattosi dal 2007 in avanti (anno di entrata in vigore del d.lgs. 252/2005) per ritoccare in aumento di uno 0,5 la tassazione dei risultati netti maturati dai fondi pensione nel periodo d’imposta di riferimento.
L’immaginata alzata di scudi degli operatori e delle loro rappresentanze fu, in realtà, una semplice scrollata degli stessi, sulla scorta della convinzione che – in fondo – uno 0,5% di tassazione in aumento non cambiasse proprio nulla. La fiscalità della previdenza complementare restava conveniente e non vi era motivo per dolersi troppo. In realtà, come ci avrebbe dimostrato il seguito, veniva così a essere tradito irrimediabilmente il patto non scritto con gli aderenti (fossero essi di recente iscrizione o iscritti di lungo corso). L’adesione a un fondo pensione è, per sua stessa definizione, una scelta di risparmio di medio-lungo periodo; scelta che presuppone che le regole esistenti al tempo dell’iscrizione non vengano cambiate in corso d’opera, pena tradire le esigenze di certezza alla base dell’operazione di accantonamento di risorse, con disincentivo – pro futuro e per chi non l’abbia ancora fatto – ad aderire ai fondi pensione.
Si diceva, poi, come si sostenesse che lo 0,5% non avrebbe inciso per nulla sugli “zainetti” previdenziali. Anche qui, in un tempo in cui si cercavano risorse per finanziare i famosi 80 euro (960 euro pro capite su base annua nel loro massimo) si veniva a scoprire che proprio lo 0,5% di incremento di imposta finiva in media per ridurre di 800 euro il montante accumulato al tempo della pensione. Il calcolo poc’anzi detto fa riferimento alla contribuzione media utilizzata da COVIP per il calcolo dell’Indicatore Sintetico dei Costi (v. Bugli-Novati, 80 euro, a te … 800, a me!, per Il Punto – Giornata Nazionale della Previdenza).
 
In questo modo si era dato avvio a un nuovo ciclo. Non mancò molto a che l’11,5% (11 + 0,5% post riforma 80 euro) passasse al 20%, con effetto retroattivo a tutto il 2014, eccezion fatta per l’aliquota di tassazione del 12,5% per i Titoli di Stato e assimilati. Era, così, arrivata la famosa Legge di Stabilità per l’anno 2015. Ora la cosa si faceva seria anche dal punto di vista dei numeri e non solo del principio e, in conseguenza, la reazione – leggermente più muscolosa rispetto a quella di mezza estate, anche se ancora piuttosto timida – questa volta ci fu. A scatenarla aiutò anche la scelta di fare applicazione retroattiva delle nuove aliquote, il tutto con tanta pace dello statuto del contribuente (L. 212/2000) e difficoltà notevoli per gli operatori nel gestire la fiscalità a ritroso, avendo già liquidato numerose posizioni in corso d’anno. Al riguardo, tra i vari, si veda il grido di dolore sempre per Il Punto di A. Siciliano, Legge di Stabilità 2015: la retroattività della norma tributaria è legittima?.
 
Qualche esponente politico, non certo di secondo piano, si spinse a dire che – in fondo – l’inasprimento tributario ci voleva ed era dovuto: trattasi sempre e comunque di rendite finanziarie. Fu così che ci parve di aver sbagliato tutto e fummo indotti a pensare che le pensioni complementari – in luogo di essere istituti fondamentali per i lavoratori di oggi e di domani – erano in realtà un gioco per speculatori incalliti; si pensi, ad esempio, alle migliaia di metalmeccanici che versando al fondo Cometa si devono essere sentiti dei novelli e spietati Gordon Gekko.
 
Fu sempre allora che ci venne detto che quello che ci sembrava un’operazione totalmente incoerente con la finalità di sviluppare il welfare complementare era, in realtà e in parte, qualcosa d’altro. Nel nuovo sistema – dove alla domanda: “Qual è la tassazione dei rendimenti dei fondi pensione?” non si può che rispondere che l’aliquota non è quantificabile ex ante e si muove tra il 12,5% e il 20% a seconda della composizione del portafoglio investimenti (il tutto con tanta pace della credibilità del soggetto costretto a rispondere in questi termini e della stessa credibilità del sistema di secondo pilastro) – veniva ad essere introdotto il farraginoso sistema del credito di imposta per investimenti in settori strategici. Come funziona e a cosa serve? In questo modo il legislatore vuole stimolare investimenti per lo sviluppo. Semplificando al massimo, la modalità è più o meno la seguente: il fondo pensione che impegni le proprie risorse in una serie di strumenti finanziari legati a settori strategici individuati con decretazione del MEF (decreto andato in Gazzetta Ufficiale il 30 luglio ultimo scorso), e.g. in settori infrastrutturali turistici, culturali, ambientali, idrici, stradali, ferroviari, portuali, aeroportuali, sanitari, immobiliari pubblici non residenziali, delle telecomunicazioni, compresi quelle digitali, e della produzione e trasporto di energia, il fondo pensione stesso avrà diritto a un credito di imposta che finirà per riportare la tassazione, oggi al 20%, all’11% (-9%). L’idea, si è detto, è quella evidentemente di stimolare gli investimenti in settori di interesse; peccato però che, non potendo fare diversamente per vincoli dell’Unione, gli investimenti possono riguardare anche opere di interesse per nazioni diverse dall’Italia. La soluzione adottata ci pare, poi, troppo articolata e complessa in vista del fine.
 
Esiste, poi, un tetto ai crediti di imposta: 80 milioni di euro (da spartirsi anche con le Casse dei liberi professionisti per cui esiste un sistema analogo) e, per questo motivo, una volta che tutti i fondi abbiano segnalato all’Agenzia delle Entrate gli investimenti effettuati e che diano potenzialmente diritto al credito tributario, il tetto di 80 milioni complessivi, se superato, dovrà essere proporzionalmente ripartito tra le parti, con tanta pace per quei fondi che avrebbero avuto diritto a un maggiore credito. Per farla facile: non è detto che il fondo fruisca integralmente del credito di imposta del 9% (20%-11%=9%) poiché, pur investendo nei titoli indicati dal legislatore, se anche gli altri fondi si muovessero massivamente in questo senso, non si andrebbe comunque oltre gli 80 milioni massimi di benefici fiscali, riconoscibili globalmente alle forme previdenziali. 
Tra crediti potenzialmente tali e il cui importo si conoscerà solo ex post, immaginate con che difficoltà si dovranno confrontare gli operatori dei fondi, ad es. nelle liquidazioni in corso d’anno, prima ancora di sapere a quanto ammonterà effettivamente il credito (potenzialmente) maturato.
 
Come anticipato in avvio, però, gli interventi del legislatore non hanno fermato la macchina. Le adesioni da fine 2014 a marzo 2015 (dato ultimo al tempo in cui si scrive) crescono di circa 200.000 unità. Il 2014 aveva fatto registrare un + 380.000 unità (+ 6,1%). Va detto, per completezza, che nel 2015, le nuove adesioni sono pressoché integralmente riferibili alla nuova esperienza di contribuzione e iscrizione automatica introdotta dal fondo Prevedi. 
Se il fisco non ha fermato la corsa, non lo ha fatto nemmeno il famoso (quanto snobbato dai lavoratori) “TFR in busta paga”. I dati ci dicono che, poco prima dell’estate, erano solo 567 dipendenti ad aver richiesto la QUIR (lo 0,1% del totale). Le critiche sin qui mosse a un legislatore non sempre attento all’importanza del welfare complementare non possono, stando a quest’ultimo dato, essere indirizzate anche ai nostri lavoratori (almeno per ora). La crisi morde, ma praticamente tutti hanno capito che l’operazione, in questi termini (v. la tassazione ordinaria della QUIR) non conviene affatto; ciò senza dimenticare quanto il TFR serva, anche e soprattutto, per finanziare la propria pensione di secondo pilastro di domani.
Buoni anche i risultati medi degli investimenti dei fondi pensione su base annua 2014 (+7,3% per i fondi negoziali, + 7,5% per i fondi aperti e +7,3% per i PIP in forma unit; i PIP in gestione separata, per loro natura e funzionamento, conoscono e mantengono la loro stabilità con rendimenti, negli ultimi anni, dal +3,5% al +3,8%).
Per il resto, in un tempo in cui gli operatori si interessano dello sviluppo dei fondi paneuropei e di come mantenere la promessa pensionistica a fronte di tassi bassi (anzi, bassissimi), siamo in attesa di conoscere che ne sarà del famoso e atteso DDL “concorrenza”.
 
Delle possibili innovazioni per la previdenza complementare, quella che ha destato una vera e propria alzata di scudi – qui, sì, che il modo di dire è appropriato – è la previsione sulla libera portabilità del contributo maturando del datore di lavoro (attenzione: non del maturato, questo è già possibile. Lo stesso vale per il TFR versato e per quello maturando). Lo sblocco ex lege della libera portabilità dei contributi del datore di lavoro in ipotesi di trasferimento da un fondo pensione negoziale a uno di natura commerciale (aperto, ad adesione individuale, o a un PIP) ha innescato una reazione notevole dei rappresentanti e degli operatori delle forme nate dalla contrattazione collettiva. Tra i vari argomenti spesi, quello più citato è quello che attiene alla paura, di assistere a uno svuotamento delle forme negoziali in favore dei fondi aperti e PIP, non tanto per la convenienza di questi ultimi, bensì per la forza delle reti distributive chiamate a raccogliere le adesioni a queste ultime. Va detto, però, che questo messaggio, se non correttamente circostanziato, riteniamo possa tramutarsi in un pesante autogol dal punto di vista comunicativo nei confronti dei potenziali interessati ai fondi negoziali (se i fondi negoziali funzionano bene – e non v’è dubbio che funzionino bene, anche in termini di costi – perché gli iscritti dovrebbero scappare? Il potenziale iscritto, sentendo certi messaggi, potrebbe chiedersi: “Ma se tutti vogliono trasferirsi dai fondi negoziali, perché io dovrei iscrivermici?”). La portabilità libera del contributo datoriale maturando verso fondi pensione commerciali, nella versione pubblicata del DDL Concorrenza pubblicata sul proprio sito dal Governo, era stata bilanciata da un’interessante previsione normativa, pur se da migliorare/completare con specifico riguardo alla sua concreta attuazione: ci riferiamo alla possibilità che i fondi negoziali potessero attrarre, a loro volta, iscritti ad altri fondi pensione (tra cui quelli commerciali). I fondi negoziali potevano così competere – e, in più di qualche caso, vincere il confronto – con gli omologhi fondi aperti e PIP.
 
A quanto pare, sia il meccanismo della portabilità libera del contributo datoriale post trasferimento sia l’apertura dei fondi negoziali a categorie diverse di lavoratori non vedranno la luce. In luogo di queste innovazioni si prevede la convocazione – entro 30 giorni dalla promulgazione del DDL – di un tavolo tecnico per la riforma del sistema dei fondi negoziali, composto da sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro oltre che dagli operatori e da tecnici di settore. 
 
A cura di Alessandro Bugli e Alberta Siciliano.

  

30/08/2015 | Categorie: Finanza personale Firma: Redazione