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CHE COSA SONO I TREMONTI BONDS?

Sono prestiti subordinati, sotto forma di obbligazioni del Tesoro, in offerta alle banche che possono utilizzarli per accrescere il proprio patrimonio. Lo stanziamento è stato di 10 miliardi di euro, che, con un leverage di 14 (che corrisponde a un capitale di 7,14) consentono un attivo di 1400 miliardi. I prestiti subordinati fanno parte del patrimonio delle banche a tutti gli effetti, pur non facendo parte del capitale sociale. Dunque i Tremonti bonds non sono un modo con cui lo stato entra nell’azionariato delle banche ma un modo con cui contribuisce dall’esterno alla loro capitalizzazione.

Con le sue cedolone all’8,5%, 10%, persino al 15 per cento, il Tremonti bond non passa di certo inosservato in questi tempi di rendimenti ridotti all’osso, con i BoT che offrono al risparmiatore meno dell’1% al netto di ritenuta e commissioni. Prodotti finanziari sofisticati non adatti a tutti. Queste speciali obbligazioni subordinate, che saranno emesse a breve dalle banche per rafforzare il capitale di vigilanza cosiddetto Core Tier-1, tuttavia non sono adatte a tutti i palati. Sono prodotti d’investimento particolarmente rischiosi e solo l’investitore più sofisticato può valutarne correttamente il rapporto rischio/rendimento.

Più simili alle azioni che alle obbligazioni i bond subordinati, ibridi, convertibili e perpetui sono molto lontani dalle obbligazioni senior (titoli di debito) perché si avvicinano di più all’equity: le cedole dei Tremonti-bond vengono pagate solo quando c’è un utile distribuibile e quindi sono perse (non cumulabili) nell’anno in cui l’esercizio della banca è in rosso. In aggiunta, il Tremonti-bond si comporta come un titolo azionario (il termine tecnico è pari passu) in quanto nel caso di abbattimento del capitale anche il valore del bond ne risente in eguale misura. Ma sono così sicure le nostre banche ?

Fatta la premessa, e con la pubblicazione dei bilanci, qualcosa sulla salute e la tenuta delle banche domestiche si è capito. Per una minore aggressività nella finanza spinta, quasi tutti gli istituti del paese hanno scansato la prima fase della crisi, quando il problema era l’esposizione ai mutui feccia tipo subprime. Lì il sistema se l’è cavata con perdite di qualche milione, contro qualche miliardo in Europa, decine negli States. Da metà 2008 invece si è iniziato a ballare: l’allargamento della forbice di tasso sui mercati tra i titoli sovrani e quelli più rischiosi ha costretto le banche a svalutazioni di rilievo. Nei bilanci delle varie Unicredit, Intesa, Mps e giù a scendere la cifra è stata di qualche miliardo.

Poco rispetto agli stranieri, numeri che non guastano davvero i profitti 2008, che a livello di sistema sono calati di un terzo. Da gennaio, il ballo è diventato una tarantola: minori utili e rischi emergenti hanno ridotto all’osso i patrimoni delle banche, già assottigliati dalle passate fusioni. Proprio Unicredit, fino al 2007 vantata da tutti come unico operatore capace di sfondare all’estero con una campagna di fusioni roboante nell’Est Europa, oggi soffre più di tutti la crisi nell’area, e l’avere sviluppato un ambizioso e sofisticato modello transnazionale che la coinvolge in tutti i dossier sgraditi.

Il gruppo vale 13,5 miliardi, quasi metà della rivale Intesa Sanpaolo (che acquisizioni estere ne fece poche, pur provandoci molto). Per questo nessuno ha distribuito dividendi, specie in denaro. Si fa provvista, perché d’ora in poi la trasformazione delle turbolenze finanziarie in recessione globale farà imbarcare ai prestatori perdite su crediti e sofferenze non più registrate da anni. E a fine 2009 sarà molto archiviare utili dimezzati, salvo sorprese (in tal caso, perdite). L’ufficio studi di Intermonte stima che le banche italiane ridurranno del 70% i profitti a fine anno.

A quel punto la “diversità bancaria” italiana potrebbe rivelarsi un’espressione più che altro retorica. Ma il vero problema, quello che può non far avverare la profezia di Berlusconi, dopo vent’anni in cui quasi tutti gli istituti sono stati privatizzati – e si sarebbe detto con successo, almeno fino a un anno fa – riguarda il patrimonio. Nei marosi della crisi operatori e istituzioni vogliono solidità patrimoniale crescente, mentre perdite, accantonamenti e difficoltà nella raccolta indurrebbero le banche a ridurre il capitale di vigilanza misurato dall’indice Core Tier 1. Su questo le nostre banche sono tra le più deboli dell’Occidente.

01/07/2009 | Categorie: Il caso della settimana Firma: Vincenzo Polimeno