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Formazione relazionale: la crescita dei consulenti passa da qui

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Parlare di formazione oggi giorno è come parlare di “variazioni climatiche” o di “cibi genuini”; banche, assicurazioni, reti di promotori, vari attori ne parlano in maniera diffusa; in linea di massima tutti concordano sulla necessità di erogare o ricevere (dipende dal ruolo e dalla prospettiva) una buona formazione, capace di rafforzare le competenze degli operatori, di perfezionare le capacità consulenziali. Nei convegni, nei workshop, nelle tavole rotonde, la formazione viene puntualmente evocata come rimedio principe per la comprensione dei bisogni dei clienti e per la relativa loro soddisfazione, quindi per migliorarne la retention. 
 
Il mercato è in fase di trasformazione, il cliente è cambiato e con esso i suoi bisogni e le sue modalità di approccio ai nostri servizi, quindi tutti siamo abbastanza d’accordo sulla necessità di supportare il cambiamento culturale delle nostre reti per renderle più capaci di comprendere e rispondere alle mutate richieste/comportamenti della clientela. 
 
Ma, posta l’esigenza comune di un progetto formativo, a che tipo di formazione stiamo realmente pensando? Tecnica? Di prodotto? Commerciale? Relazionale?
 
In base alla nostra esperienza, gli intenti formativi aziendali al momento sembrano ancora prediligere le competenze tecniche e di prodotto. In misura decisamente minore le aziende propendono per una formazione relazionale e spesso quando accettano di erogare tale tipo di formazione lo fanno in maniera “sperimentale” quasi incastonando sparute “pillole relazionali” in un programma di formazione tecnica. A nostro avviso, la formazione relazionale non può funzionare ad “isole” ma necessita di verifiche costanti attraverso follow up e momenti di confronto interni, magari gestiti da facilitatori esperti. Inoltre la formazione relazionale deve essere condivisa, conosciuta e apprezzata dai vari attori coinvolti nello stesso processo di business. Sensibilizzare e formare una rete di promotori sui temi relazionali significa fornire loro degli strumenti aggiuntivi formidabili che però rischiano di venire banalizzati da una parte dell’azienda che non li conosce e non ne apprezza il valore.
 
In quasi tutte le nostre aule abbiamo incontrato discenti (promotori, sviluppatori, agenti,) che denotavano una preparazione orientata in grande prevalenza agli aspetti tecnici. Abbiamo visto che gli strumenti relazionali, quando e se in parte conosciuti, non vengono utilizzati con naturalezza, forse perché compensati dall’elevata preparazione professionale, dai rapporti personali con i clienti e in definitiva dai buoni risultati riportati. 
 
Ma chi stabilisce gli intenti formativi aziendali? Sono univoci, chiari e condivisi? Fanno parte di una precisa e dichiarata strategia aziendale? 
 
Spesso abbiamo riscontrato dicotomie all’interno delle aziende. I responsabili della formazione hanno budget definiti e diversi committenti da coprire con una coperta che spesso risulta troppo corta: le direzioni commerciali richiedono interventi formativi push, legati al lancio di nuovi prodotti, o a sostegno di specifiche campagne commerciali, o per il raggiungimento di determinati obiettivi di vendita; la compliance, o l’antiriciclaggio, necessitano di non essere tralasciate; il fiscale e il legale devono accertarsi che tutti gli operatori siano aggiornati e in grado di rispondere in maniera puntuale e corretta alle richieste dei clienti. In questo succedersi di legittime e diverse richieste tematiche, la formazione rischia di diventare una somma di interventi spot e, sotto il pressante sforzo di rispondere alle richieste stringenti del momento, difficilmente si trova lo spazio e il budget per la formazione relazionale. 
 
Inoltre, difficilmente troviamo nei programmi formativi aziendali un vero fil rouge, ossia un percorso strutturato e strategico, approvato dal CdA e condiviso da tutta l’azienda, che sia stato pensato come volano di crescita delle risorse, tramite la predisposizione di modelli di formazione capaci di guidare le Reti nel processo di trasformazione ormai assolutamente necessario per rispondere in maniera efficace alle nuove sfide di mercato. Eppure le aziende sostengono notevoli investimenti economici e di risorse, i cui ritorni non sono sempre facilmente misurabili.
 
Siamo sempre più convinti che la formazione possa e debba assurgere a funzione strategica di supporto al CdA e all’alta direzione per la realizzazione degli obiettivi strategici dell’azienda. I piani di formazione, a nostro avviso, dovrebbero sempre essere allineati e coerenti con i piani industriali ma in realtà non sempre lo sono. Un esempio per tutti il tema della multicanalità.
Molte Società, Banche e Compagnie tradizionali, avvertendo la necessità di rimanere competitivi nell’attuale era c.d. digitale, si cimentano nella costruzione di un modello di offerta/servizio multicanale; sostenendo spesso ingenti sforzi, queste aziende hanno progettato e abilitato nuovi processi e sistemi, hanno creato un’offerta di servizi web e mobile ma in parallelo non hanno attivato un intervento di change management, un programma di cambiamento culturale che investa tutta l’azienda.
 
Anche i sistemi ben progettati possono essere compromessi da una cultura aziendale consolidata, soprattutto quando i dipendenti, o meglio ancora i vertici aziendali, esitano a cimentarsi con le nuove pratiche e con le nuove visioni richieste dalle nuove tecnologie. Senza uno sforzo di change management, la transizione verso un modello operativo multicanale vedrà una società divisa in due: una parte, quella che per skill e attitudine è maggiormente ingaggiata dal progetto, si muoverà verso il futuro; l’altra, forse la più numerosa, resterà aggrappata ai tradizionali approcci di business. Per assurdo, tanto più un’azienda produce buoni risultati tanto più non percepisce la necessità di cambiare. Chiediamoci allora: se la multicanalità è pensata per rispondere alle mutate esigenze relazionali del cliente, possiamo realizzare questo cambiamento solo da un punto di vista di processi e infrastrutture oppure dobbiamo prevedere un cambiamento culturale diffuso? 
 
Ma torniamo al nostro tema, la formazione relazionale. Cos’è? Che benefici porta? 
Possiamo definire la formazione relazionale come un percorso che ha la finalità di instaurare un circolo virtuoso e dinamico che, attraverso le varie fasi della relazione professionale e umana, favorisce la crescita lavorativa degli individui. Tramite questo percorso formativo si potranno acquisire gli strumenti concreti per avere una maggiore consapevolezza del proprio comportamento manageriale e degli effetti che esso produce, sviluppando una maggiore capacità e oggettività di lettura dell’interlocutore e delle circostanze in cui si trovano ad operare. Attraverso l’esercitazione all’ascolto, al riconoscimento dell’interlocutore e alla comunicazione assertiva, è possibile depurare l’elemento valutativo dalle parti di giudizio negativo che possono pregiudicare le relazioni interpersonali consulente/cliente e quindi la fiducia reciproca, demotivando il professionista.
 
E’ opportuno definire con precisione i contenuti dei corsi relazionali, i loro campi di applicazione, i destinatari e i benefici che possono portare in termini di produttività. La maggior parte dei contenuti è trasversale, cioè è presente (o dovrebbe esserlo) in tutti i corsi relazionali a prescindere dall’oggetto specifico del corso. Che si tratti di erogare un corso sulla gestione dei conflitti, sulla leadership, sulla comunicazione efficace o quant’altro, vi sono presupposti relazionali ineludibili. A nostro avviso, il primo passo dovrebbe quindi essere l’organizzazione di corsi di base in grado di costituire una piattaforma su cui poi edificare le specifiche abilità da utilizzare professionalmente. 
 
E’ di grande importanza il ruolo dei responsabili delle risorse umane al fine di tarare i contenuti dei corsi sulle reali esigenze aziendali in una specifica fase storica, tenendo conto delle figure professionali coinvolte. Spesso, si da per scontato che l’erogazione in anni precedenti di corsi relazionali garantisca una continuazione tipica di una serie TV a puntate. In realtà quello che resta veramente sono solo le nozioni che sono state integrate nelle personalità delle risorse sul piano razionale, emotivo, affettivo e corporeo.
 
La razionalità, l’intelligenza, la preparazione tecnica sono caratteristiche importanti che concorrono al successo professionale. Sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Quando il gruppo di lavoro si presenta in aula, il solo canale immediatamente disponibile è quello razionale. Eppure è esperienza comune quanto le perturbazioni emotive, affettive e corporee incidano sulle nostre performance. Questo scudo di razionalità viene usato sia nei confronti del formatore, elemento ignoto e potenzialmente giudicante, sia nei confronti dei colleghi, specialmente nel caso dei promotori o venditori che svolgono il loro lavoro individualmente, almeno in apparenza. Questi sono spesso gelosi del loro modus operandi e difficilmente accedono ad una condivisione delle rispettive esperienze col gruppo. Viceversa le tipologie di clienti e le esigenze di investimento, pur nelle loro specificità, hanno tratti ricorrenti e le esperienze messe in comune dialetticamente sono un importante fattore di crescita individuale e di gruppo. Questo processo può avere luogo solo instaurando un clima di fiducia e collaborazione, gestendo l’ansia di venir giudicati dai colleghi e dal formatore e sentendosi relativamente liberi di esprimere la propria autentica personalità, unita ad una certa quota di vulnerabilità. Tutto ciò non può essere prodotto lavorando solo sul piano logico-deduttivo. Mettersi in gioco e, quindi fruire appieno delle potenzialità della formazione, implica che i piani caratteriali emotivi, affettivi e corporei possono essere coinvolti. Questa è la condizione primaria per operare il delicato passaggio dal gruppo di lavoro al lavoro di gruppo.
 
Perché si arrivi al lavoro di gruppo bisogna creare le condizioni per fare del corso una costruzione comune, evitando dispersioni inutili e interventi fuori posto. Il formatore è portatore di una struttura solida e riconoscibile, che deve conservare la plasticità per poter sempre tener conto delle esigenze dei corsisti che a volte sono imprevedibili e apparentemente “fuori programma”. Si deve distinguere il bisogno di comunicazione delle risorse aziendali da inopportuni regolamenti di conti interni che trovano nella libertà espressiva del corso un indebito luogo di sfogo. Quest’uso improprio del luogo di formazione a volte è inevitabile visto la compressione emotiva dei partecipanti ed è necessario contenerlo e restituirlo al gruppo in una forma rispettosa e accettabile, anche se non necessariamente condivisa da tutti. In caso contrario reprimendo rigidamente o ignorando questo tipo di comunicazioni è difficile accedere alle aeree affettive ed emotive del gruppo.
 
Le domande poste spesso hanno un doppio piano di lettura. Dietro una richiesta di chiarimento di un argomento relazionale si cela di solito un aspetto sensibile delle risorse o anche del gruppo. Ad esempio, se si parla di distanza interpersonale, la domanda può facilmente arrivare da chi ha una problematica di collocazione rispetto al cliente ed eccede in distanza o prossimità. L’ascolto del gruppo favorisce l’apertura affettiva, empatica ed emotiva e permette che le nozioni acquisite trovino una collocazione personale e quindi utilizzabile.
La libertà espressiva, l’ascolto, una struttura didattica flessibile, un programma realistico, il riconoscere i bisogni impliciti sono aspetti essenziali, ma se il tutto avviene nella staticità corporea manca ancora un pezzo fondamentale. Dunque è indispensabile creare condizioni di movimento e di interrelazione dinamica. 
 
In definitiva nel suo lavoro il promotore finanziario utilizza anche la sua corporeità e sappiamo tutti quanto le impressioni suscitate dalla fisicità altrui siano a volte determinanti. L’impressione destata dal modo di porsi somaticamente è in parte inconscia, quindi una volta che si è prodotta è molto difficile modificarla. La consapevolezza del proprio modo di porsi, la conoscenza degli elementi che entrano in gioco e per quanto è possibile, la gestione dell’effetto prodotto sull’interlocutore sono componenti importanti che incidono sensibilmente sul buon andamento di una transazione. Nella formazione bisogna dunque creare occasioni in cui i gesti (intenzionali), i movimenti (non intenzionali), le aree di disagio personale e le ipercompensazioni delle proprie insicurezze vengono analizzate e quindi gestite dall’operatore finanziario. E’ ben noto che in caso di incoerenza tra la comunicazione verbale e quella vocale o somatica, l’interlocutore terrà sempre conto di quest’ultima. In formazione questi aspetti vengono spesso trascurati perché necessitano di un clima di rilassatezza, fiducia, disponibilità e (perché no ?!) di leggerezza ed autoironia che non sempre è facile da instaurare.
 
I frame teorici seguiti da esercitazioni pertinenti si fissano in modo più stabile e soprattutto vengono modulati dalla personalità dei corsisti, rendendosi così disponibili ad una utilizzazione spontanea e armonizzata con i tratti caratteriali e professionali. Per favorire questo processo è rilevante lavorare in ambienti confortevoli per quanto possibile e che abbiano uno spazio libero per potersi muovere. I lavori con un respiro più ampio si possono avvalere dell’uso della musica (da non confondere con il ballo) e con l’ausilio di oggetti di mediazione (palle, bastoni, corde …). 
E’ così possibile personalizzare la formazione a partire dalle evocazioni emotive, affettive e corporee che affiorano. Un importante effetto collaterale di questa tecnica è il prodursi di un team building e un team working spontanei che spesso risultano più pregnanti di lavori orientati in modo specifico a questi scopi. Il gruppo passa dall’atteggiamento razionale che ci si aspetta in un corso di formazione alla consapevolezza di vivere un’esperienza in comune comprendente l’affettività, l’emotività e la corporeità. A questo punto tornare alla trasmissione di contenuti tecnici, razionali risulta molto agevole perché adesso la razionalità non è più uno scudo protettivo ma la chiave di lettura che da un senso, uno scopo a quello che è stato vissuto. I roleplaying, i giochi d’aula e la restituzione dei test proiettivi concorrono a questo processo e lo amplificano se utilizzati in modo stimolante e dando il massimo spazio possibile ai feedback dei partecipanti.  
 
Il ruolo del formatore è al servizio di quello specifico gruppo e se il riscaldamento, i frame teorici, le esercitazioni, i test evitano il meccanicismo, il corso si fa quasi da solo risultando così gratificante per i partecipanti, che si sentono artefici della propria evoluzione. In questo senso il docente entra ed esce dal suo ruolo di formatore, risultando ora guida strutturale, ora un facilitatore che dirige il traffico.
Ma come si traduce tutto ciò in produttività e motivazione? Questi due termini hanno una connessione molto stretta di cui le aziende sono ben consapevoli in teoria ma che a volte non riescono a tradurre in pratica. Accedere a fattori tecnici che concorrono ad aumentare la produttività risulta apparentemente più agevole che incidere sulle reali motivazioni delle risorse. L’incentivo economico è certamente molto rilevante ma non è l’unico e a volte neanche il principale. Ricerche ormai consolidate hanno indicato che le risorse possono essere soddisfatte e non motivate così come motivate e non soddisfatte. Dunque anche in tempi di budget limitati è possibile lavorare sulla motivazione. Due sono i fattori chiave per incrementare le motivazioni: il riconoscimento e l’appartenenza. Entrambi questi aspetti necessitano di una integrazione razionale, emotiva, affettiva e corporea che è quando proposto e sollecitato dal nostro modello di formazione. 
 
Parliamo del riconoscimento in formazione. La risorsa vuole essere riconosciuta innanzitutto sul piano professionale ma ha quasi sempre una domanda implicita di considerazione sul piano personale. Se non sono previsti colloqui individuali è un passaggio da trattare con delicatezza. Bisogna comprendere e rispondere senza violare il confine privato delle persone. Spesso è utile rispondere a quella specifica problematica come se fosse proposta dal gruppo nel suo insieme. Le persone maggiormente coinvolte capiranno e tratteranno l’essenziale senza imbarazzo, per gli altri sarà semplicemente un contributo in più.
 
L’appartenenza dal punto di vista formativo viene strutturata attraverso il lavoro collettivo. Il corso è una emanazione aziendale e allo stesso tempo una evoluzione aziendale. Dunque si deve rendere compatibile l’appartenenza originaria di bandiera con le nuove acquisizioni che vengono fatte dal gruppo in formazione. A volte si rende necessaria una mediazione che dia continuità ai due momenti. Ad esempio se un’azienda ha puntato finora quasi esclusivamente sulla formazione tecnica, il corso relazionale va erogato con cautela per non causare fratture con la prassi consolidata e non alimentare visioni troppo critiche che poi rischiano di diventare alibi per inadeguatezze operative. Se il corso è in grado di generare un’esperienza vissuta l’appartenenza al gruppo di lavoro è automatica e di conseguenza le nozioni acquisite continueranno a circolare tra i partecipanti anche dopo la chiusura della formazione. Se non tutte le risorse fanno la formazione il rischio è che si costituisca un sottogruppo portatore di una cultura specifica.
 
La formazione relazionale risulta feconda in termini di produttività quando è ben integrata con gli aspetti tecnici ed entra a far parte della cultura aziendale. A questo proposito è molto utile far seguire ai corsi dei follow up che hanno un triplice obiettivo. Primo: rinfrescare le nozioni acquisite e rievocare la modalità di lavoro proposto, cioè fare lavorare armonicamente tutti piani della personalità. Secondo: verificare nello specifico eventuali difficoltà di applicazione delle nozioni durante l’operatività ordinaria. Terzo: approfondire, raffinare, ampliare i contenuti relazionali. 
 
I follow up sono importanti tanto quanto i corsi perché li valorizzano e li rendono operativi nel tempo. Gli strumenti trasversali che questo tipo di formazione propone sono essenzialmente la flessibilità e l’oggettività. La flessibilità permette di avere risorse che sappiano tener conto di se stesse, degli altri, della situazione, sapendosi così adattare alle condizioni in continua evoluzione. L’oggettività permette una lettura relazionale che comprenda il maggior numero di elementi e di variabili al fine di situarsi in maniera ottimale rispetto all’interlocutore e all’obiettivo lavorativo.

A cura di Stella Aiello.
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06/09/2015 | Categorie: Mondo consulenti Firma: Redazione